Politicamente scorretto

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Margherita Reguitti

10 Novembre 2016
Reading Time: 5 minutes
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Alfio Krancic

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Alfio Krancic (Fiume 1948) è un disegnatore e vignettista che si autodefinisce politicamente scorretto, ma fra i più apprezzati in Italia, una delle matite più anticonformista del nostro Paese. Ama cimentarsi su temi off limits fra i quali

immigrazione, religione, omosessualità e gender. La sua è satira politica, fotogrammi del presente. Inizia la carriera alla fine degli anni ’70 collaborando con testate fiorentine (giunse a Firenze nel 1949 con i genitori, esuli istriani, dopo una permanenza in campi profughi), poi la svolta alla fine degli anni ’80 con Il Secolo d’Italia, L’Indipendente e Il Giornale, dove tutt’ora pubblica. Ha collaborato anche con La Repubblica e Rai 3. Ha pubblicato cinque raccolte di vignette, la sesta è in attesa di “ok si stampi” dell’editore. È inoltre presidente della giuria del concorso internazionale “Spirito di Vino” organizzato dal Movimento turismo del Vino FVG.

Come è iniziata la sua attività di vignettista per testate nazionali?

«Ho cominciato a disegnare nel 1979 per giornali clandestini semisconosciuti. Il vero salto verso la professione avvenne tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 quando ho iniziato a lavorare con il Secolo d’Italia e L’Indipendente. Prima però avevo collaborato anche con La Repubblica, dalla redazione cittadina di Firenze. Lo facevo con entusiasmo disegnando giorno e notte».

Perché abbandonò il giornale di Scalfari?

«Per una ragione prosaica direi: non pagavano, se non dopo sei mesi. Mi sono dunque trovato ad un bivio: feci una scelta pratica, la fame o praterie da solcare, spazio di espressione che Feltri mi offriva, con il quale avevo anche sintonia di ideali».

Nel suo passato anche la politica: nel 2013 fu candidato in Fvg con il Movimento sociale Fiamma tricolore per il Senato. Lo rifarebbe?

«Ebbi tre richieste di candidature in regione: per Fratelli d’Italia, che dopo la proposta non si fecero più sentire, con Casa Pound e con il Movimento sociale. Scelsi questa proposta: fu un’avventura e una sfida per pesare quanto potessi contare, che riscontri avrei potuto avere. Senza pensare realmente a diventare senatore. Andò comunque bene; dai duemila voti si passò a cinquemila, una soddisfazione, ma poi tutto finì lì, tanti saluti e arrivederci. Magari mi arriverà una candidatura di Renzi, visto che siamo tutti e due fiorentini (ride, ndr.). Non l’ho mai conosciuto di persona ma, abitando in piazza del Duomo, capitava che ci incontrassimo quando era sindaco».

A parte questa esperienza di candidato, che rapporto ha con il Friuli Venezia Giulia?

«Molto forte e continuo direi. Sono presidente del concorso internazionale per autori di vignette “Spirito di Vino” organizzato dal Movimento turismo del vino, giunto quest’anno alla 17esima edizione. Ma a parte questo sono molto legato a tutta la regione. Mia madre era friulana, ho fatto il militare a San Vito al Tagliamento, conservando bellissimi ricordi della campagna verde e dei tanti corsi d’acqua. Sono molto legato a tutta la parte orientale del territorio e naturalmente a Trieste, tappa obbligata dell’esodo, dove vivono molti parenti e cugini. Una città che mi affascina e dove, dagli anni ’50 in poi, sono ritornato sempre per varie occasioni. Da parte di madre la famiglia era molto numerosa, 14 figli; a tutt’oggi ritrovarci ha il sapore del ricomporsi di un clan».

Mai pensato di ritornare stabilmente?

«Per un periodo ho cercato casa a Trieste e in Istria, trovando posti belli e anche a prezzi interessanti, ma poi ho comprato una casa di campagna in Toscana. La voglia resta, ma mancano i soldi. Non lo escludo però, in futuro chissà. Appena le mie finanze lo permetteranno».

Che ricordo ha dell’esodo?

«Ero piccolo quando i miei genitori lasciarono la loro terra. Ho scoperto nel 1973 che il mio nome era Krancic e non Cranci. Dovevo sposarmi e dunque richiesi il certificato di nascita a Fiume. Fu un trauma: da italiano mi ritrovai slavo. Mi cambiò la vita e mi fece venire la voglia di sapere e capire. Iniziai a parlare di questo passato, prima con mio padre e poi studiando la storia, per capire cosa era accaduto. Pensi che in casa a Trieste e in Toscana i miei genitori fra loro parlavano croato e quando erano fuori ciacolavano in veneto. Io fui orgoglioso di riappropriarmi del mio cognome originario che il fascismo aveva nazionalizzato. Il nome è la storia di un uomo, non è acqua».

A che conclusioni giunse sulle cause di uno dei periodi più terribili della storia del Novecento che coinvolse anche lei e la sua famiglia?

«Non fu solo pulizia etnica ma politica e per superare definitivamente queste ferite ci vorrebbe una pedagogia della storia. In Istria vi era una popolazione composita: italiani, sloveni e croati. Era una convivenza pacifica fino al fascismo. Le tragedie della Seconda guerra mondiale furono causa del nazionalismo del regime che fece deflagrare alla fine del conflitto la persecuzione verso gli italiani; da qui le foibe. Non fu odio etnico. A riprova di questo le decine di migliaia di sloveni e croati ammazzati dai titini. Fu dunque pulizia politica».

Tutta la sua famiglia scelse l’esodo?

«No, nel ’45 alcuni parenti rimasero in Istria; erano italiani, aderirono al nuovo stato della Federativa Jugoslava e nessuno li toccò. Mio padre era cuoco, decorato per aver combattuto in marina durante la Grande Guerra; sono cresciuto secondo ideali patriottici, ma nella mia famiglia due zii morirono: uno infoibato e l’altro nella resistenza. Le cose erano molto più complesse».

Una terra di tante differenze; il nazionalismo le ha appiattite per semplificarle in condizioni di porosità culturale?

«Proprio così. Era una situazione etnica molto frastagliata, nella quale gli irredentisti, i nazionalisti e i vari D’Annunzio imposero – per semplificare e rendere omogenee – il pensiero delle ideologie, che si rivelarono cause di tragedie, come l’esodo e le foibe, e tanto odio su entrambi i fronti».

Oggi che cosa non viene raccontato?

«La verità: un atto rivoluzionario, citando George Orwell. Chi fa satira dovrebbe sempre cercare di avvicinarsi alla verità. Anche se questa può essere di parte. Ci sono però cose oggettive, se non se ne parla per convenienza è come tagliarsi una mano, stare in una gabbia rinunciando alla libertà. Oggi c’è coralità senza obiezioni, manca l’analisi del presente, fondamentale per captare i problemi del futuro».

Orwell fu visionario e anticipatore. Lei nel suo ultimo libro “La grande invasione” è andato oltre il presente?

«Questo non è il compito dei vignettisti, ma degli intellettuali. In questo momento storico però non vedo pensatori degni di questo ruolo come invece fu Pasolini. Lui aveva capito la trasformazione in atto nella società, dimostrando la capacità di interpretare alcuni segni che volteggiano nell’aria. Il suo viaggio era partito da Casarsa, luogo di valori ai quali nell’ultima parte della sua vita era tornato dopo l’esperienza del comunismo e del marxismo. Oggi fa rabbia l’incapacità diffusa di narrare la realtà: in sintesi, c’è poco. Spaventa il nichilismo post consumistico dei nostri giorni, amplificato sui social, portatore del nulla come lui aveva capito».

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