Piccolo corpo

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Margherita Reguitti

10 Novembre 2022
Reading Time: 5 minutes
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Laura Samani

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Determinata, cristallina, fisico minuto, forte personalità, diretta, ironica, informale: così la percepiamo. È Laura Samani, una vera e propria rivelazione nel panorama delle giovani registe e sceneggiatrici del cinema italiano. Triestina, una millennial in prima fila sulla ribalta nazionale e internazionale con “Piccolo corpo”, un’opera prima intima, girata in Friuli, recitata in friulano, già vincitrice quest’anno di importanti premi tra i quali il David di Donatello.

Dopo il liceo classico Dante nella sua città, Laura si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Pisa dove consegue la laurea triennale in Discipline della Arti e della Comunicazione. La svolta verso la macchina da presa giunge con il diploma di regia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Fra i suoi cortometraggi “La santa che dorme” del 2016, premiato a livello internazionale; poi il grande exploit.

Ora, mentre fioccano i premi e la pellicola gira nei più importanti festival internazionali, sta già lavorando al prossimo film che sarà ambientato nella sua Trieste.

Laura Samani, un’opera prima che sta raccogliendo premi e successo di pubblico, dal David alla candidatura agli Oscar e alla recente assegnazione del Globo d’Oro della stampa estera in Italia. Ti aspettavi un tale successo?

«Nel marzo 2020, quando il set si è fermato per il lockdown nazionale dopo soli pochi giorni dall’inizio delle riprese, avevo la sensazione che il film non l’avremmo mai finito. Figurarsi tutto il resto. Volevo solo riuscire a terminare le riprese. Ci abbiamo messo un anno intero per completare cinque settimane di set. A ripensarci, mi viene in mente quel bellissimo motto di Rolland, ripreso poi da Gramsci: “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”».

Una storia poco conosciuta del Friuli più misterioso e riservato, connotata da realismo magico-religioso e slancio alla trascendenza fisica. Un lavoro di un anno per narrare un viaggio di 4 giorni. Come hai incontrato questa leggenda?

«Nel 2016 ho avuto la fortuna di essere presentata ad Aldo Morassutti, un rinomato ristoratore della bassa che è venuto a mancare qualche mese fa. Aldo mi ha parlato per la prima volta di Trava e dei miracoli del ritorno temporaneo alla vita dei neonati. Da lì è iniziato tutto. Ho cominciato a documentarmi, a indagare questi misteriosi miracoli del respiro».

Come è stato lavorare con la luce, “raccontare” sentimenti con i colori della natura in condizioni atmosferiche diverse, a volte sorprendenti in positivo o negativo?

«Fin da subito io e Mitja Licen, il direttore della fotografia, abbiamo concordato sul fatto che una storia così legata al trascendente, all’impalpabile, avesse bisogno di corpo. Il film è girato in continuità, cioè in ordine cronologico, e principalmente in esterni, con luce quasi esclusivamente naturale. Questa decisione ci ha messi nella condizione di vivere il viaggio nella stessa verità dei personaggi. Piove? Giriamo. Nevica? Giriamo. Questa cosa costringe ogni persona della troupe a essere in una tensione partecipe, in una suspense costante. Alla pari dei personaggi».

Rapporti con la gente del posto, il territorio, difficoltà logistiche…

«Il film è fortemente radicato nel territorio ed è quindi popolato di persone che in alcuni casi ci hanno addirittura aiutato a trovare le location. Abbiamo girato in zone che non sono facilmente raggiungibili da una troupe cinematografica, che solitamente è affollatissima e comporta innumerevoli mezzi di supporto e strumenti tecnici. La nostra organizzazione era il più agile possibile e tutti sapevano che per raggiungere alcuni luoghi speciali, come Pramosio, toccava fare un po’ di fatica in più. Ne è valsa la pena. La difficoltà più grande è stata girare con una barchetta nel mezzo del Lago del Predil con una bufera di neve in arrivo. Ma anche quando ha iniziato a nevicare a Orias con mezza troupe era bloccata lì e mezza in un’altra location, non è stata una passeggiata».

Un’opera è l’autore che si rivela: tu cosa sveli di te in questo film?

«C’è tanto di me in Agata. La sua cocciutaggine, la sua difficoltà nel separarsi da ciò che ama».

Un’opera coraggiosa, realizzata da una giovane regista che ama soprattutto sperimentare il suo linguaggio espressivo in modalità spontanea.

«Per me fare film è un pretesto per condividere con le persone, la troupe all’inizio, poi il pubblico, le domande che mi faccio. È una pratica di ricerca di senso».

Due protagoniste: Agata, archetipo femminile, e Lince, personaggio fluido, mescola di femminile e maschile ma anche di natura animale. È stato scelto da subito questo taglio fortemente contemporaneo?

«All’inizio del progetto Agata viaggiava da sola. Poi con Elisa Dondi e Marco Borromei, coautori di Piccolo  corpo, abbiamo deciso di affiancarle un altro personaggio. Così come Agata è costruita secondo un archetipo femminile, quello della madre, Lince nasce con l’idea di incarnare quello del guerriero, quindi un archetipo maschile. Negli anni di sviluppo del progetto, si sono aggiunti molti strati. La sua fluidità, quindi il mancato rigore dell’archetipo, è il motivo per cui riesce a parlare al presente, a rilanciare nuove energie».

Piccolo corpo, grandi temi. Come è scaturito il titolo e qual è stata la modalità di scrittura in fase di sceneggiatura e di riprese?

«Il titolo viene da una battuta che è stata tagliata già in fase di scrittura, perché era ridondante. Il marito di Agata, per invitarla a rassegnarsi alla morte della figlia, le diceva appunto “È solo un piccolo corpo”. Quelle due parole sono quasi un oltraggio per Agata. Sono la molla che la spinge a intraprendere il viaggio verso il santuario, dove spera di far tornare in vita sua figlia, il tempo di battezzarla».

Il film sta andando bene nelle sale di tutta Italia, ma anche su Sky on Demand e Now Tv dove la Nefertiti, produttore e distributore del FVG, lo ha reso disponibile oltre che in DVD. Che rimando hai dagli incontri con il pubblico ai quali partecipi prima o dopo la proiezione del film?

«Gli incontri con il pubblico sono dei bellissimi momenti di restituzione. Le persone mi spiegano cose che nemmeno io avevo capito. O condividono le proprie storie. È un momento di cura collettiva».

Avete lavorato in condizioni non facili con un lungo intermezzo di mesi per Covid: su cosa avete fatto forza per superare le difficoltà nel vostro gruppo di lavoro?

«Io sono lì a dirigere i percorsi degli altri, ma il lavoro è privato e collettivo al tempo stesso. Ci tengo molto che ogni persona coinvolta abbia una forte motivazione, un’affezione personale al progetto. Così che ognuna, anche egoisticamente, nel senso più sano del termine, sappia perché è lì e abbia degli obiettivi durante il percorso. Credo sia l’unico modo per nutrirsi e per imparare a riconoscere il senso di sacro negli occhi degli altri e delle altre e poter così creare insieme. Altrimenti è solo un lavoro».

Dove sta andando il cinema italiano? Secondo te fra 50 anni come sarà classificato per temi e stili questo periodo?

«Meglio chiederlo a un critico o a una critica cinematografica. Io ti proverò a rispondere tra cinquant’anni. È difficile calcolare con precisione la distanza dalla riva e dalle boe, mentre stai nuotando».

C’è una scuola di cinema made in FVG?

«In FVG siamo pochi, ci conosciamo e con alcune persone capita di confrontarsi e nuotare un pezzetto insieme».

A cosa stai lavorando ora?

«Sto scrivendo il secondo film. Sarà ambientato a Trieste e non vedo l’ora di cominciare la ricerca delle location e il casting. È la prima volta che ambiento una storia nella mia città e sono molto emozionata».

 

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