Per spiegare le proprie vele

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Vanni Veronesi

14 Marzo 2014
Reading Time: 5 minutes

Intervista a Marco Tortul

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Si alza il sipario. Sul palco un faro illumina un ragazzo su una sedia a rotelle. Non c’è altro sulla scena. O forse no? Cosa c’è oltre quella sedia? Fu questa la domanda che, oltre dieci anni fa, un giovane attore triestino pose al pubblico del suo spettacolo teatrale. Oggi, quella vecchia domanda è il nome di un’associazione che nel capoluogo giuliano si adopera per abbattere le ultime barriere fra la società dei ‘normali’ e quella di chi ne resta fuori. Ne abbiamo parlato con il referente, Marco Tortul.

 

Prima di tutto, chi è Marco Tortul?

«Un ex animatore, cresciuto nell’ambiente dei Salesiani, ma anche un ex giocatore e poi allenatore di basket: tre esperienze che mi hanno aperto le porte, quasi naturalmente, al teatro sperimentale, dove la parola è bandita e il tema dev’essere espresso solamente attraverso il corpo. Terminata la scuola, ho iniziato a lavorare negli enti della disabilità, fi sica e intellettiva. Dove ho provato esperienze straordinarie. C’erano persone che non parlavano: ebbene, facendo loro ascoltare della musica, queste riuscivano finalmente a esprimersi, al di là del come. Lo stesso accadeva portandole sul palcoscenico. Nel 2002, dunque, realizzammo uno spettacolo a tema, con una carrozzina al centro della scena e una domanda: cosa c’era “oltre quella sedia”? C’erano emozioni sconosciute, passioni inconsapevoli, attitudini ignote: c’era un intero mondo represso dalla disabilità, o meglio dal modo ‘tradizionale’ di viverla, che attendeva solo di essere portato alla ribalta».

Com’è passato dal teatro all’associazione?

«Partendo da un’altra domanda: se sul palcoscenico un disabile si esprime con tale naturalezza, perché non dovrebbe farlo anche nella vita quotidiana? Nel 2008 abbiamo cominciato con una stage residenziale di una settimana, sempre legato a un laboratorio teatrale: un esperimento che ha suscitato l’interesse di alcuni responsabili dell’Azienda sanitaria. Abbiamo quindi ideato il progetto La vita che vorrei, dal quale è emersa la necessità di un luogo/spazio educativo, separato dalla famiglia, in cui poter far emergere tutte quelle attitudini necessarie a una vita autonoma, liberando i genitori dal pensiero angosciante del “che ne sarà di loro dopo di noi?”. Nel 2009 ci siamo costituiti come associazione con il nome di Oltre quella sedia e nel 2011 hanno finalmente visto la luce le nostre ‘case-scuola’, piccole comunità autogestite di persone, stavolta con disabilità intellettiva, non più fi sica, in cui ogni inquilino, abituato a una vita passiva, deve riuscire a cavarsela da solo. Il fine ultimo è quello di dare una prospettiva di vita a ragazzi che, terminata la scuola e congedato l’insegnante di sostegno, si fermano in un limbo immobile, mentre vedono tutti gli altri compagni proseguire il proprio percorso all’università e poi nel mondo del lavoro. La nostra attività è sostenuta da Regione, Provincia e Comune a livello economico e attraverso collaborazioni e progetti comuni: il contributo di questi enti è preziosissimo».

Com’è strutturata l’associazione?

«Siamo cinque operatori affiancati da quattro volontari, spesso studenti tirocinanti delle facoltà di Psicologia e Scienze della Formazione. L’associazione dispone di due appartamenti, uno per le quattro ragazze e uno per i sei ragazzi. Partiamo dai lavori domestici: fare il letto, preparare da mangiare, pulire. Le famiglie che ci affidano i loro figli hanno sempre pensato a tutto: noi, invece, chiediamo che siano loro a pensarci. Le prime volte commettono errori, ma poi imparano e scoprono talenti nascosti».

Ruota tutto intorno al concetto di responsabilità?

«Certo, anche nelle cose più semplici. Mancano sale, olio, latte e caffè? Se i ragazzi non pensano di andare in supermercato, si troveranno a mangiare cibi insipidi e a rinunciare alla colazione: la volta successiva, però, l’‘errore’ non verrà più compiuto. Uno ha la stanza in disordine? Se preferisce vivere nella confusione, è una scelta sua. Qualcuno potrebbe stupirsi, ma questa è esattamente la vita che vivono le persone ‘normali’: sono le dinamiche che formano, come dice la psicologia, il “reale processo evolutivo” di ognuno. Qui non ci sono mamma e papà: questa è casa loro e qui bisogna diventare se stessi fino in fondo».

Quali sono invece le attività che proponete al di fuori dell’ambito domestico?

«Ce ne sono molte. C’è chi va a fare pulizie alla Caritas e chi, di venerdì, si reca in un locale al Villaggio del Pescatore per svolgere pescaturismo. Sempre di venerdì, il pomeriggio, andiamo a preparare i panini per i poveri accolti dalla Comunità di S. Egidio. Questi e altri compiti sviluppano non solo capacità, ma anche consapevolezza: sentirsi utili, capire che si può avere un ruolo importante nella società, come aiutare il prossimo, è qualcosa di impagabile. E poi c’è il teatro, che ci contraddistingue fi n dalla nascita e che da qualche anno abbiamo portato nelle scuole».

Una vera sfida.

«Sì, perché abbiamo voluto operare con le classi più difficili, quelle in cui gli insegnanti faticavano a mantenere l’ordine. Non basta cosa si dice: è fondamentale il come. Ho visto bambini scalmanati letteralmente rapiti da una ragazza disabile che, solo con il contatto delle mani, riusciva a calmarli e a farsi ascoltare con autorevolezza: le maestre erano incredule».

Per quanto tempo rimangono da voi questi giovani?

«Possono stare poche settimane come alcuni mesi o anche di più: dipende dai loro cambiamenti. Chi fa ritorno alle proprie famiglie, di solito, ha compiuto un percorso impensabile: i genitori si rendono conto di avere di fronte una persona davvero ‘cresciuta’. Ma il rischio di regredire è sempre presente: occorre mantenere la propria indipendenza, continuare sulla strada intrapresa, e per fortuna è spesso così».

I vostri ragazzi sanno di essere ‘diversi’?

«Alcuni no, alcuni sì… e in questo caso è molto difficile accettarsi».

Una domanda delicata: come si manifesta la loro sfera amorosa?

«È un tema difficilissimo. Abbiamo provato ad affrontarlo, tanto che è venuta da noi una sessuologa per spiegare questo mondo. Ci sono state delle storie d’amore fra ragazzi e ragazze, ma il loro modo di viverlo meriterebbe molta più attenzione. Tuttavia le famiglie affidano a noi i loro figli e questo è un campo minato: non a caso abbiamo preferito mantenere la separazione degli appartamenti».

Come sono state scelte queste case?

«Assieme ai ragazzi! Ancora una volta, partendo dall’affidamento di un incarico di responsabilità: aprire la rivista di annunci immobiliari, cercare un’offerta interessante e chiamare il padrone di casa».

Pensare che molti di loro, non tanti anni fa, sarebbero finiti in manicomio…

«Noi non ci occupiamo di psichiatria, ma l’esperto che ci segue, Livio Zanello, ha colto subito l’aspetto ‘basagliano’ della nostra proposta, essendo egli stesso di quella scuola. Dal canto nostro, abbiamo partecipato al grande evento del nuovo viaggio di Marco Cavallo (la statua di cartapesta simbolo della chiusura dei manicomi, ndr) lo scorso autunno, realizzando una performance teatrale nel centro di Trieste: Le vele dell’anima. Inoltre, abbiamo partecipato al festival Impazzire si può: mentre le donne dell’associazione ‘L’una e l’altra’ recitavano le loro poesie, noi le mettevamo in scena con il corpo».

So che avete collaborato con la Risiera di San Sabba.

«In occasione del Giorno della Memoria, lo scorso anno, abbiamo mostrato ai ragazzi un filmato sull’operazione Aktion T4, per mezzo della quale la Germania nazista eliminò quasi 100.000 vite ritenute indegne di essere vissute. Hanno visto, capito e ne hanno parlato fra loro. Crescere significa anche affrontare tutto questo».

 

Oltre quella sedia – Associazione di promozione sociale onlus. Per conoscere di persona i membri dell’associazione e vederli all’opera, ci si può recare ogni giovedì dalle 16.30 alle 18.30 al teatro di via dei Moreri 22 a Trieste. Contatti: info@oltrequellasedia.it www.oltrequellasedia.org

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