Le forme delle emozioni

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Andrea Fiore

12 Ottobre 2016
Reading Time: 3 minutes
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Nuovi linguaggi

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Chi di noi non le ha utilizzate scrivendo un sms, una e-mail o qualsiasi altro tipo di messaggio via web? Da sempre mi tengo lontano dai luoghi comuni, ma in questo caso credo si possa affermare che, a parte rare mosche bianche, tutti coloro che utilizzano i telefoni di ultima generazione o altri strumenti di comunicazione on line abbiano utilizzato le emoticon per descrivere o sintetizzare un’emozione, uno stato d’animo, un giudizio.

Perché proprio grazie alla diffusione planetaria dei nuovi mezzi comunicativi, le faccine gialle (che nel mondo del politically correct diversi programmi stanno adattando ai colori di tutte le razze umane) in grado di sintetizzare con un’espressione codificata sentimenti personali talvolta difficili da descrivere a parole stanno diventando giorno dopo giorno parte integrante del nostro linguaggio.

Parola d’ordine: ottimizzare

160 caratteri. Per comprendere l’evoluzione che stiamo vivendo bisogna partire da questo dato: la lunghezza di un singolo sms da inviare tramite cellulare. L’esigenza di trascrivere con poche parole concetti altrimenti più articolati ha sdoganato le emoticon da frivolo abbellimento di un testo a parte fondamentale nell’espressione di  un’emozione. Di fatto, una rivoluzione epocale.

Comunicazione universale

Per comprendere la portata di questa rivoluzione epocale è sufficiente soffermarsi su un aspetto: in tutte le culture del mondo, il significato delle emoticon è unanimemente riconosciuto. E così quelle semplici “faccine” riescono a giungere là dove nessuno era mai arrivato prima: diventano cioè linguaggio universale, modello reale di globalizzazione.

Una forma di linguaggio – come peraltro indica il nome stesso – incentrata principalmente sulle emozioni piuttosto che su altri concetti, anche se proprio dalle emoticon hanno preso piede altre icone raffiguranti oggetti, strumenti, attività, cibi o bevande in grado a loro volta di sintetizzare attraverso un’immagine universalmente riconosciuta ciò che scritto in diverse lingue non sarebbe comprensibile da tutti.

Semplificare non significa migliorare

Tutto bello e perfetto, quindi? Come per ogni fenomeno innovativo, anche in questo caso esiste il rovescio della medaglia. Che a differenza dell’immediatezza delle emoticon apre uno scenario più complesso. Perché la semplificazione in immagine dell’espressione di un’emozione o di un sentimento (sorta di evoluzione del “tvb”, “ti voglio bene” usato in codice anni addietro dagli adolescenti) diviene indicatore di una povertà di linguaggio. Contesto suffragato anche dalle ricerche effettuate in tutte le culture del mondo: la quantità dei vocaboli che i giovani utilizzano per esprimersi è in costante diminuzione. In pratica un linguaggio sempre più universale e al tempo stesso sempre più povero.

Dal linguaggio al cervello

Precisando che l’utilizzo delle emoticon è un fenomeno che non riguarda solo i giovani ma che sta interessando l’intera popolazione, è tuttavia sulle nuove generazioni native digitali che diventa interessante avviare un discorso in termini di prospettiva. A differenza delle persone più adulte che hanno sviluppato in modo “tradizionale” le proprie competenze linguistiche e di pensiero, trovandosi successivamente a disposizione uno strumento di semplificazione come le emoticon, la situazione cambia tra i giovani d’oggi. Possedere un ampio vocabolario da utilizzare nella propria espressione comunicativa, infatti, garantisce un’apertura mentale indispensabile per potenziare le capacità cognitive. E siccome i meccanismi con cui comunichiamo modificano la nostra struttura cerebrale, diventa realistico il rischio di una ridefinizione biologica del cervello nelle persone del futuro.

Con un pericoloso paradosso: avremo strumenti di comunicazione sempre più efficienti e immediati, ma sempre meno concetti da esprimere…

Emoticon e… droga

Per concludere un tuffo nel passato, dove tutto ha avuto inizio. Le emoticon di oggi, infatti, sono l’evoluzione di Pac-Man, il protagonista di un celebre videogioco degli anni ’80, il cui scopo era mangiare più palline possibili. Gli ideatori di quel gioco lo realizzarono prendendo spunto dalla propria esperienza con l’assunzione di ecstasy: quelle palline erano in realtà nella loro immaginazione delle pastiglie di droga, mentre i fantasmi che apparivano erano il risultato delle allucinazioni conseguenti all’ingerimento…

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