Le conseguenze dell’amore

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Vanni Veronesi

20 Gennaio 2017
Reading Time: 6 minutes

Guarnerio d’Artegna

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Ambizioni e tentazioni

Un imprecisato inizio del Quattrocento (forse il 1410), a Portogruaro o a Zoppola: è avvolta nell’oscurità la nascita di Guarnerio, che non a caso si prodigherà per ripristinare il titolo di conte d’Artegna, assegnato dal Patriarcato di Aquileia alcuni secoli prima ed evidentemente perduto dalla sua famiglia. Assicurarsi un albero genealogico di elevata schiatta, all’epoca, è fondamentale per avanzare nella società, tanto più che le ambizioni del giovane Guarnerio sono evidenti sin dalle prime testimonianze sul suo conto: l’immancabile laurea in legge all’Università di Padova e, soprattutto, la sua presenza a Roma a partire dal 1428, alle dipendenze del cardinale Antonio Panciera, nella sua residenza presso San Biagio degli  Armeni.

L’ambiente dell’Urbe è quanto di meglio possa offrire la cultura italiana dell’epoca: proprio qui, a contatto con umanisti e intellettuali, Guarnerio matura il gusto per la letteratura latina, una delle poche certezze a cui appigliarsi in tempi travagliatissimi. Le prime avvisaglie della crisi si manifestano nel marzo del 1431, quando papa Martino V muore subito dopo aver convocato un concilio a Basilea. Il successore, Eugenio IV, è un tipico cittadino della Repubblica di Venezia, erede di un casato borghese arricchitosi con il commercio; facile, con un simile retroterra, spiegare la sua insofferenza nei confronti di un concilio piombatogli addosso contro la sua volontà, nonché il suo astio verso l’ambiente romano, che ha un emblema perfetto nel motto della famiglia Colonna: mole sua stat, «sta ferma sul suo peso».

Lo scontro non tarda ad arrivare; sul fronte conciliare, i cardinali riuniti a Basilea conducono un’opposizione serrata, che culminerà nell’elezione di un antipapa (1439); sul fronte romano, proprio i Colonna danno vita a un governo autonomo della città. Messo spalle al muro, nel maggio 1434 il pontefice è costretto a una rocambolesca fuga sul Tevere, a bordo di una barca a remi. Sei mesi dopo  Roma è ricondotta all’ordine, ma Eugenio ne rimarrà lontano fino al 1443, preferendo risiedere fra Bologna e Firenze. È in questo clima infuocato che Guarnerio sceglie di riparare in Friuli e prendere i voti, unico trampolino possibile per un nobile decaduto come lui. La fede in Dio è forte, non altrettanto la vocazione: a testimoniarlo è la nascita di sua figlia Pasqua, negli stessi mesi in cui egli avvia la carriera ecclesiastica (1435). Il neo chierico non può riconoscerla, ma non viene meno ai suoi doveri di padre: inizia così un sostegno clandestino alla figlia che durerà per oltre vent’anni.

Tra sacro e profano

Il 16 settembre 1438, nel duomo di Udine, Guarnerio viene consacrato ufficialmente sacerdote, ma i suoi veri interessi sono orientati altrove. Ereditata una parte della collezione libraria del cardinal Panciera e acquistati altri codici sul mercato, l’umanista friulano si ritrova fra le mani una serie di manoscritti religiosi di straordinario valore, fra cui la leggendaria Bibbia ‘Bizantina’. Il manoscritto, che si apre con il libro del profeta Daniele e dunque presuppone un primo volume perduto, parla già con i suoi numeri sbalorditivi: 34,8 cm di base e 52,8 cm d’altezza, 21 grandi iniziali figurate o istoriate, 1.144 piccole iniziali con decorazioni altrettanto raffinate e 175 testate miniate. Sull’origine di questo capolavoro assoluto dell’arte libraria gli studiosi dibattono da decenni: alcuni lo riconducono allo scriptorium del Santo Sepolcro di Gerusalemme e pensano a un arrivo in Italia attraverso i Crociati; altri lo collocano in Italia Meridionale, in un’area influenzata dalla cultura bizantina.

Il manoscritto, di contenuto sacro, si affiancherà ben presto a quelli di contenuto profano: Philippicae, Paradoxa e De amicitia di Cicerone, copiati per Guarnerio a Lavariano dal canonico Nicolò di San Vito al Tagliamento; il De officiis sempre di Cicerone, copiato raptissime («rapidissimamente ») dallo stesso Guarnerio; i riassunti dell’opera di Tito Livio, anch’essi trascritti raptim. Tra una lettura e l’altra, tuttavia, il chierico è costretto a fare il suo dovere ecclesiastico: lo troviamo quindi al concilio, nel frattempo spostato a Ferrara (1438) e poi a Firenze (1439). Le ambizioni dei porporati sono altissime: di fronte alla minaccia degli Ottomani, ormai da anni alle porte di Bisanzio, le chiese ortodossa e cattolica dovranno riunirsi per affrontare il nemico comune.

La delegazione bizantina è un concentrato di giganti: al seguito dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo, infatti, arrivano il cardinale Bessarione, il filosofo Giorgio Gemisto Pletone e lo scrittore Giovanni Argiropulo. Nomi che oggi parla no solo agli studiosi di filologia, eppure di importanza capitale nella storia dell’Europa, poiché assieme a loro giunge un vero e proprio fiume di manoscritti greci. Così, dopo secoli di oblio, in Occidente ricompaiono i ‘classici’: un flusso librario che aumenterà esponenzialmente dopo il 1453, quando Bisanzio cadrà definitivamente in mano turca – sancendo la velleità delle ambizioni conciliari – e gli ultimi intellettuali fuggiranno proprio in Italia. Guarnerio non riuscirà mai ad imparare il greco, ma il contatto con queste figure straordinarie avrà un influsso determinante, tanto da indurre Guarnerio a raccogliere e commissionare traduzioni latine di autori come Basilio di CesareaTucidide, Luciano, Plutarco, Eschine, Senofonte e Demostene.

Ascesa, declino e nuove sfide

Questa seconda fase nella costruzione della sua biblioteca, databile a partire dal 1444, è anche la più feconda: Guarnerio, divenuto vicario del Patriarca di Aquileia (carica che gli consentirà, nel 1445, di essere il vero protagonista delle trattative fra la Serenissima e il Patriarcato dopo la conquista veneziana), cementa i suoi rapporti intellettuali legandosi a Giovanni da Spilimbergo e Francesco Diana, rettori della scuola di Udine, che gli mettono a disposizione i migliori studenti per la copiatura dei classici latini e greci. Accanto al già ricordato Nicolò da San Vito, dunque, compaiono Giovanni Belgrado, Nicolò de Collibus, Marco di Giovanni da Spilimbergo, Michele Salvatico; copisti provetti, ma comunque inferiori alla vera stella dello scriptorium di Guarnerio: Battista da Cingoli, un analfabeta. Paradossalmente, l’incapacità di comprendere il senso delle parole è il suo punto di forza: non potendo fraintendere alcunché, Cingoli riproduce i testi che deve copiare esattamente come li vede, creando una grafia che sconfina nel disegno artistico, così bella da fare invidia a qualsiasi stampatore.

Questo stuolo di professionisti confezionerà manoscritti preziosissimi, con opere di Aulo Gellio, Valerio Massimo, Curzio Rufo, Cornelio Nepote, Svetonio, Nonio Marcello, S. Agostino, S. Girolamo, l’immancabile Cicerone, svariati autori greci (tradotti in latino), ma anche umanisti precedenti o contemporanei a Guarnerio. Ma ci sono anche presenze inattese, apparentemente incompatibili con la biblioteca di un serio vicario patriarcale, eppure tipiche di un animo mosso da una curiosità senza limiti: il poeta Marziale, autore di epigrammi in cui non mancano volgarità ed erotismo, e il commediografo Plauto, le cui opere sono infarcite di gustose scurrilità e situazioni imbarazzanti. Nel frattempo la figlia Pasqua è diventata maggiorenne.

Ormai in età da marito, la sua scelta cade su Giovanni Baldana, figlio di Bartolomeo, amico di Guarnerio fin dagli anni romani. Perché il matrimonio sia valido, tuttavia, occorre avere il riconoscimento ufficiale della paternità di Pasqua, sicché Guarnerio è posto di fronte a un bivio: ignorare le aspirazioni della figlia, mantenendo una posizione privilegiata all’interno della curia, oppure riconoscerla una volta per tutte, assicurandole un avvenire a scapito della propria carriera. Guarnerio non ha dubbi: sceglie la seconda strada. Il riconoscimento di Pasqua suscita scandalo nel Friuli dell’epoca: privato del titolo di vicario, ridimensionato a semplice pievano di San Daniele del Friuli, dal 1454 Guanerio si ritrova senza copisti qualificati. Si affida così a maestri di provincia, i cui scritti presentano tanti e tali errori da suggerire all’umanista friulano una nuova, eccitante sfida: la creazione di una scuola di grammatica, nella quale mettere a disposizione i libri della propria raccolta. Quella che era nata come semplice collezione privata, gelosamente custodita dal suo coltissimo proprietario, diventa così uno strumento didattico formidabile.

L’ultimo atto

All’appressarsi della morte, dopo aver riconosciuto sua figlia, il 7 ottobre 1466 Guarnerio compie il secondo gesto più importante della sua vita: nel dettare le sue ultime volontà testamentarie, lascia alla chiesa di San Daniele «tutti li suoi libri che si ritrovava havere con obligo alla Chiesa di far fabricare in loco honesto et condecente una libraria et in quella tutti l’istessi libri ponere, con sue catene ligati, et ivi conservarli per uso dell’istessa Chiesa et che non siano mai levati di detta libraria per accomodar altri. Et se alcuno volesse sopra detti libri legere o studiare et al Consilio et Comunità piacesse, possa sopra detti libri e nell’istessa libraria e non altrove legere et studiare con licenza del Consiglio et Comunità di San Daniele». È l’atto di nascita di una delle prime biblioteche pubbliche del mondo: la Guarneriana, appunto, dove ancora oggi possiamo ammirare la collezione del suo fondatore, arricchita dai lasciti dei secoli successivi. Uno scrigno di tesori che continua a tramandare il ricordo di un umanista, ma soprattutto di un vero uomo.

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