Lavoro, una “gavetta” è per sempre

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Anna Limpido

9 Maggio 2022
Reading Time: 4 minutes

La fine del Patto sociale

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Tutti noi da giovani abbiamo lavorato sottopagati: ci veniva ricordato che all’inizio si è un “peso” e che, dovendo appena imparare un mestiere e non producendo alcunché, si grava sul datore di lavoro che deve provvedere alla nostra formazione.

Se di fatto questo è vero, è anche vero che la fase dell’apprendimento è sempre un momento di fatica, dedizione ed esclusiva che, seppur ancora acerbo, è funzionale alla successiva produttività di un bene o di un servizio.

In ogni caso, fino a un ventennio fa, di ciò generalmente nessuno obiettava perché di base c’era comunque un sottinteso Patto sociale, anche detto “gavetta”, che in buona sostanza diceva: “accetta queste sub-condizioni, investi, perché il tuo futuro sarà migliore”. Ed effettivamente andava così: nessuno nel tempo restava ai livelli della gavetta, c’era comunque un crescere nel proprio mestiere e con le proprie declinazioni.

Questo Patto sociale ha sorretto per anni la staffetta fra generazioni in un susseguirsi fiducioso dove i padri potevano con certezza ambire che i propri figli, accedendo a studi più alti, potessero approdare a condizioni di vita migliori.

Poi qualcosa è andato storto, incrinandosi fino a spezzarsi definitivamente: il mondo economico ha iniziato a tirare il fiato e con esso ogni categoria e generazione ha innalzato barricate per proteggere i privilegi sino a quel momento acquisiti. Il mondo sociale ha perso le proprie certezze corrompendone le parole e tradendo gli accordi ove il coltello dalla parte del manico era tenuto dal “mondo adulto” sui giovani.

Anche la tipologia dei contratti di lavoro ha visto un progressivo declassamento con l’invasione di forme contrattuali nuove, chiamate in modo fraudolento “flessibili”, che, come l’erbaccia, andavano a infestare le contrattazioni: lì dove questi contratti erano nati per offrire facilitazioni, nel tempo il loro abuso (che di fatto ne ha eluso lo scopo) li ha trasformati in trappole in cui tanti, troppi, restavano imbrigliati per anni (tra co.co.co, co.co.pro, etc.).

Addirittura la Pubblica Amministrazione, che è naturalmente vocata al lavoro stabile, ne ha fatto incetta a volte anche appaltando totalmente all’esterno, con condizioni peggiorative, funzioni che prima erano ordinariamente interne.

Se questo è stato il buongiorno dei primi anni 2000, il ventennio successivo è stato anche peggiore perché quel famoso Patto sociale, oramai già rotto, è diventato sempre più un lontano ricordo e non sostituito da altro: un vuoto etico e solidale in cui i nuovi precari, i sottopagati, gli espulsi dal sistema, quelli costretti a fare due lavori per vivere, ne sono restati lì parcheggiati con le loro sub condizioni senza sapere quando ne sarebbero venuti fuori e se ne sarebbero venuti fuori, senza alcuna proiezione futura.

In questa macro situazione generale (madre di ogni nichilismo attuale ovvero di quel pensiero che non crede più a nulla), c’è poi quella micro costituita dai lavoratori stagionali, quelli che, a differenza degli altri che hanno sub condizioni perché giovani, perché nuovi, perché “un altro come te lo trovo subito”, loro le hanno perché lavorano con il mare o il solleone come sfondo.

La loro è una categoria molto eterogenea ma qui sintetizzabile in due tipi: quelli che pianificano ciclicamente il lavoro stagionale con il sussidio di disoccupazione (tema che meriterebbe un’attenzione a sé) e quelli, solitamente giovani, che vogliono affrancarsi con dei soldini facendo qualche lavoretto. Non sono ovviamente spariti quelli del primo tipo, ma i secondi sì. Introvabili tra la sazietà data da opinabili sussidi e l’apatia di sogni spenti, i giovani preferiscono le poche rassicuranti certezze familiari e domestiche, girando e rigirando nel porto senza fare capolino in mare aperto, rinviando a “dopo” (locuzione temporale imprecisa) l’entrata nel mondo adulto.

Disorientati e confusi dalle poche e ingannevoli certezze (tra l’altro l’Italia vanta anche il minor numero di laureati rispetto all’intera Europa), pochi si distinguono inseguendo qualche chimera all’estero, qualche ferma passione o il solco tassativo precettato dall’indotto familiare: non rappresentati nella vita sociale, muti e spesso sordi in una dimensione parallela fatta dai social e dalle distanze imposte dalla messaggistica, entrano nei discorsi mediatici solo come pungiball per essere bistrattati, etichettati come nullafacenti e fannulloni.

E in questo, c’è la mala fede generale di essere stati tutti noi conniventi in questi anni con il peggioramento del mondo del lavoro, accettando per noi e per gli altri condizioni che andavano via via diminuendo e che oggi, anche con l’aumento dell’inflazione, sono ai minimi dell’offerta lavorativa. Tutto il mondo adulto ha accettato in silenzio l’imbruttimento delle professioni: direttori di banca che sono diventati semplici esecutori, avvocati impiegati, steward camerieri, dove poi questa accettazione è stata pagata con l’unico compromesso di non perdere i propri benefici a discapito dei giovani che oggi sono pagati la metà dei propri predecessori.

Scendiamo quindi tutti dal pulpito del giudizio e torniamo all’ascolto.

 

Anna Limpido è Consigliera di Parità della Regione Friuli Venezia Giulia

 

 

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