L’ambasciatore del gusto

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Vanni Veronesi

3 Settembre 2014
Reading Time: 5 minutes
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Intervista esclusiva a Joe Bastianich

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Incontro Joe Bastianich a Gagliano di Cividale, in uno dei pochi giorni veramente caldi di questa bizzarra estate. Al ristorante Orsone, immerso fra i vigneti dell’azienda, siamo in molti ad attenderlo: con la sua band, i The Ramps, lo stesso Bastianich si esibirà in serata assieme ad altri musicisti per festeggiare il primo compleanno del locale. Fra un servizio fotografico, un selfie con dei ragazzi e un esercito di strumentisti da sfamare, l’immagine del ‘cattivo’ giudice di Masterchef – «sono solo severo, vista la posta in gioco», replica ogni volta –, è lontanissima dalla simpatia e dalla cordialità che tutti riscontriamo. Terminato il giro delle foto e dei saluti, rimango l’unico in attesa. Ed è così che Joe Bastianich mi indica una sedia e mi invita a sedermi vicino a lui: in un attimo mi trovo accanto a uno dei restaurant man – come recita il titolo della sua autobiografi a – più famosi del mondo, di fronte a una tavolata di musicisti intenti a divorare il pranzo.

È vero che lei, da piccolo, quasi si vergognava di dire che i suoi genitori erano ristoratori?

«Sì, perché negli anni Settanta, a New York, la ristorazione era un lavoro di immigrati, dunque molto povero. La mia famiglia se n’è andata dall’Istria dopo la Seconda Guerra Mondiale e mio padre ha iniziato a lavorare in America come cameriere; era un’epoca molto diversa da oggi, dove questo genere di business è spinto dalla televisione e dal giornalismo. Quello dei miei genitori, invece, era prima di tutto un lavoro di servizio: il ristoratore serviva i clienti. Ora è cambiato completamente».

E come potrà cambiare ancora?

«Qualcosa di ancora più mediatico rispetto a oggi, sinceramente, credo non possa esistere. Rientrare di più nell’ottica ‘antica’, a mio parere, sarà la tendenza dei prossimi anni: credo che siamo andati un po’ troppo oltre l’estremo e che il ristoratore debba tornare, semplicemente, a servire i clienti, com’è sempre stato. Anche nelle cose più elementari: del resto, ‘ristorante’ deriva dal ‘ristoro’ che il locale dovrebbe garantire alle persone. Un concetto sano, che deve vivere nuovamente».

Lei ha tre figli: è la terza generazione di italoamericani. Quanto è vivo ancora, in loro, il senso dell’italianità?

«Hanno vissuto una realtà diversa dalla mia. Io sono cresciuto con i miei nonni in casa, che parlavano solamente dialetto triestino, mentre mia moglie è prettamente americana, anche se pure lei di origine italiana, e in casa nostra si parla inglese. Tuttavia hanno vissuto la realtà friulana con le mie aziende vinicole, crescendo molto in Italia. Sicuramente il suono della lingua, la cultura, le persone ci entrano nell’anima e nel cuore; finora non hanno ancora fatto il salto del ‘diventare italiani’, ma credo che in futuro questo desiderio arriverà. Il dato culturale d’origine, alla fine, ritorna sempre: così è stato anche per me».

Perché molti ristoratori se ne vanno dall’Italia?

«In questo momento di crisi l’Italia sta perdendo moltissime risorse umane, con il loro talento quasi naturale: i cuochi si spostano nel mondo e approdano dove ci sono maggiori opportunità. Questo Paese dovrebbe trovare una soluzione per gestire meglio l’economia, alleggerendo la burocrazia, riducendo le tasse sul lavoro, lasciando che i ristoranti guadagnino un po’ di più. Naturalmente la situazione economica non la risolviamo noi due, ma dovrà essere risolta in tempo: tornerà il sereno, non sarà tutto così difficile per sempre, ma perdere queste persone è un gran peccato. Speriamo che ritornino».

Cosa significa perdere un simile capitale umano?

«Significa impoverire un’intera nazione, perché il grande tesoro dell’Italia sono i contadini e gli artigiani: sono due categorie che da sempre rappresentano il meglio nel mondo, con i loro cibi e i loro prodotti. E in qualche maniera i cuochi sono degli artigiani».

A proposito di qualità e produzioni locali, lei crede che saremo in grado di reggere l’urto della globalizzazione?

«Sì, se gli Italiani torneranno a girare il mondo come veri ‘ambasciatori’ del loro Paese e della loro cultura, trasmettendola in una maniera intelligente. Spero davvero che l’Italia non perda il grande tesoro della ristorazione: penso che non accadrà mai, ma bisogna essere consapevoli del suo reale valore».

Come mai ha scelto proprio Cividale per aprire il suo primo ristorante in Italia?

«Vengo da una famiglia di origini istriane, quindi non propriamente friulana, però ho fatto mia questa terra. Ho iniziato a frequentare il Friuli già da bambino, con i miei genitori. Quando poi ci sono tornato, molti anni dopo, per impiantare un’azienda vinicola, ho ritrovato il calore di quei tempi. I friulani mi hanno adottato come un figlio: sono molto felice di essere qui».

Cos’è per lei il vino?

«Ho capito che volevo dedicarmi al vino quand’ero in Piemonte, ma sono venuto a produrlo proprio qui in Friuli, nel 1997. Per me è molto più che una bevanda: è la storia stessa della mia famiglia. Ma è anche una delle massime espressioni dell’identità di una terra. Qui in Friuli, in particolare, il legame fra vino, persone e territorio è strettissimo».

In Italia, com’è noto, ci sono sessanta milioni di allenatori di calcio e sessanta milioni di esperti in cucina…

«…sì, e non si sa bene se siano di più gli allenatori o gli chef!»

Appunto. Quindi, quanto è difficile la ristorazione in Italia rispetto agli USA, per esempio, o ad altri Paesi nel mondo?

«È più difficile soprattutto per i soliti motivi legati alla burocrazia e alle tasse, anche se pure in America la situazione non è sempre buona: vent’anni fa, negli USA, era tutto più semplice. Certo, è vero che il cliente italiano ha una maggiore cultura gastronomica: gli chef sono sotto esame continuo».

Lei gestisce una trentina di ristoranti in tutto il mondo: come riesce a seguire tutto?

«Non da solo: ho molti collaboratori al mio fianco. In America è normale affidare ad altre persone questo tipo di responsabilità: c’è una cultura molto diversa del business. Io posso essere qui, ora, oppure a Masterchef in televisione, oppure a suonare con la mia band, perché so che ci sono ragazzi che s’impegnano a gestire il ristorante come se fosse di loro proprietà: il coinvolgimento è autentico, vero. È un meccanismo molto americano, che funziona».

Quante proposte di lavoro le arrivano mediamente?

«Dipende dal periodo e dalla situazione, ma sono molte. Attualmente ho circa 3.000 dipendenti e gli spazi di lavoro sono ancora aperti».

Come sceglie le persone giuste?

«Abbiamo la fortuna di lavorare nella cultura italiana del cibo: per gli stranieri è ormai un cult. Le persone giuste sono quelle che si appassionano per davvero a questo mondo».

Dovesse dare un consiglio a un giovane che voglia intraprendere questa strada?

«Lascia perdere la ricerca del denaro: avvicinati alle persone più brave che puoi trovare e lavora con loro. I soldi arrivano dopo».

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