Il ricordo del Panificio dei Paviz

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redazione

10 Maggio 2023
Reading Time: 8 minutes

Nel 2023 avrebbe celebrato il secolo di fondazione, ma la storica realtà di Perteole ha cessato l’attività

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RUDA – I primi giorni del 2023 hanno riservato una sgradita sorpresa agli abitanti di Perteole e dei paesi vicini: il panificio dei Paviz, da tutti conosciuti come ‘Maràn’, ha chiuso i battenti.

Hanno lasciato i loro clienti senza clamore, senza avvertire, semplicemente collocando il 31 dicembre un cartello sulla porta del negozio con la tranquillizzante dicitura: ‘Chiuso per ferie’, ma senza specificare che quelle ferie erano a tempo indeterminato.

Il panificio proprio quest’anno avrebbe compiuto cent’anni: lo aveva infatti aperto nel 1923 Luigi Paviz, classe 1880. Fino al 1914 lavorava nell’Amideria Chiozza ed è stato il primo conduttore del camion-automobile che trasportava l’amido fino al porto di Cervignano; il suo passaggio richiamava torme di ragazzini che guardavano affascinati la carossa sensa ciavai che viaggiava ad una velocità mai vista prima.

Poi, per divergenze con il direttore, Luigi è stato licenziato[1], trovandosi così di punto in bianco su una strada e con quattro figli piccoli da mantenere. Per due anni si è adattato a fare il norcino e altri lavori occasionali finché, scoppiata la guerra, è stato inviato in Galizia ed è poi finito prigioniero in Russia. Al suo ritorno il Comune, considerando le sue precarie condizioni economiche, gli ha concesso di costruire una baracca provvisoria sulla Tarabana (attuale Via Mazzini). Nessuna come le cose ‘provvisorie’ resistono al tempo, tant’è vero che quella baracca si è via via trasformata in una casa vera e propria nella quale hanno vissuto per tanti anni tutti i Paviz. Ad un certo punto, per mantenere la famiglia, Luigi ha deciso di aprire un panificio. Una scelta coraggiosa in quei tempi, visto che le famiglie erano abituate a cuocere il proprio pane in casa e i contadini avevano addirittura dei grandi forni in muratura costruiti nei cortili.

Il pane di Luigi era così buono che non ha tardato a conquistare clienti, tra l’altro i figli ormai erano cresciti e potevano dargli una mano.

Il forno originario era un basso caseggiato che si trovava proprio di fronte a quello attuale. L’interno era molto suggestivo: ricordo l’ambiente buio e caldo con le travi a vista annerite dal fumo, mentre Mario e Cesare armeggiavano con pale e stracci bagnati legati ad un lungo bastone per togliere dal saliso ogni traccia di cenere prima di infilare le pagnotte da cuocere che deponevano delicatamente sui mattoni refrattari. Il profumo che usciva dal forno avvertiva quando era il momento di estrarle.

Per fare gli acquisti si doveva passare nella stanzetta attigua dove le due cognate, Dirce e Bernardina, si alternavano nel servire i clienti e a preparare la nuova infornata passando più volte la pasta lievitata nella gramula, l’antenata dell’impastatrice elettrica.

Finché non sono stati introdotti i registratori di cassa, le famiglie segnavano la spesa su un libretto e saldavano il conto una volta al mese. A volte capitava che, per vari motivi, qualcuno non riuscisse a saldare il conto ma i Paviz non hanno mai negato il pane a nessuno. Oltre a questa forma di carità, Luigi ha introdotto la tradizione del ‘Pane di Sant’Antonio’ (rappresentato in un affresco nella chiesa parrocchiale). Sotto la statua del Santo, c’era una cassetta per le offerte e con il ricavato i Paviz facevano un certo quantitativo di pane da destinare ai poveri del paese e ai mendicanti di passaggio

Luigi è venuto a mancare il giorno di Pasqua del 1939. A lui si sono succeduti i figli Mario e Cesare e Bernardina, mentre Placido, il primogenito, aveva preferito lavorare sui grandi transatlantici come aiuto meccanico e viveva a Trieste. Mario, nel 1940 e Cesare nel 1949 si sono sposati rispettivamente con Dirce e Vilma Oliva, due sorelle di Sant’Andrat dello Judrio.

Per scoprire cosa significava fare il panettiere ho intervistato gli ultimi discendenti della famiglia: Ausilia, Patrizia, Luigi e Otello. Proprio quest’ultimo, nato nel 1950, di carattere, solare ed estroverso, come il padre Cesare, mi ha raccontato tanti particolari riguardanti i dieci anni che ha trascorso facendo questo mestiere:

“Subito dopo aver completato le scuole medie ho cominciato a lavorare nel forno e devo dire che quelli sono stati gli anni più belli della mia vita! Ogni giorno, verso le undici, mi recavo a Saciletto e a Mortesins con due grandi ceste fissate alla bicicletta (una davanti ed una dietro) colme di pane e lo consegnavo casa per casa.

Ormai tutti mi consideravano uno di famiglia e potevo entrare nelle cucine senza bisogno di bussare, tanto le porte e i cortili non erano mai chiusi a chiave. C’era tanta miseria che non c’era niente da rubare…semmai mi capitava spesso di lasciare qualche pagnùt a chi non se lo poteva permettere.

Nei due paesi c’erano tanti personaggi simpatici, vere macchiette, conosciuti per soprannome: Giùte, Faùssa, al Sette, Galisto, Nino Manzìn, Toni Cocio… tutti poverissimi ma di parola; anche se avevano il vizio di alzare il gomito, pagavano sempre puntualmente. In tanti anni non sono mai mancato alle consegne: a volte sono stato costretto a ritardare perché pioveva a dirotto o la strada era impraticabile per la neve e dovevo trascinare la bici a piedi. Una sola volta ho lasciato la gente quasi a digiuno: mentre passavo sulla stretta passerella di legno che attraversa la roggia dietro il castello ho urtato con la bici uno dei cavi di sostegno e sono caduto. Io non mi sono fatto niente ma il pane è finito nell’acqua! Confesso che guardando quel ben di Dio trascinato via dalla corrente non riuscivo a trattenere le lacrime, ma poi mi sono rialzato e sono tornato di corsa nel forno a prendere il pane rimasto e ho cercato di accontentare un po’tutti.

Oggi si ricordano con nostalgia i vecchi forni a legna ma gestirli richiedeva tanti sacrifici; per fortuna che noi eravamo una famiglia numerosa e ciascuno aveva il suo compito. Non avendo ancora il frigorifero il lievito d’inverno lo si preparava alle sette di sera ma d’estate lo si doveva preparare alle undici, altrimenti inacidiva. A questo ci pensava zia Bernardina. Siccome a lei piaceva star fuori fino a tardi a chiacchierare con gli amici, rincasava dopo aver preparato il levàn e riposto nella vintula. Alle tre era il turno di mio padre o di zio Mario che facevano il resto. Una delle più grandi preoccupazioni era quella di reperire le fascine. Servivano grandi quantità e, non avendo un posto riparato dove tenerle, quando pioveva era un bel problema farle ardere!

Il periodo di punta era durante la settimana santa, quando si preparavano le pinze e le colombine per i bambini. Il forno restava acceso giorno e notte perché, oltre ai nostri prodotti dovevamo cuocere anche le pinze fatte nelle famiglie. In quei giorni era tutto un via vai di donne con il taulîr tenuto in equilibrio sulla testa con sopra le pinze da cuocere. Quanti litigi e quanti pianti se le pinze no jevavin. “Mi lis an striadis! Chês lì no son li mês” sospettava più di qualcuna”.

Il nuovo panificio è stato inaugurato nel 1963. Anche qui il forno era a legna ma al posto delle fascine si utilizzavano gli scarti di legname provenienti delle fabbriche di sedie di Manzano, che allora lavoravano a pieno ritmo. Anni dopo quel forno è stato sostituito da quello a gas che funziona ancora.

Nel 1975 mi sono sposato e l’anno dopo sono stato assunto alla Snia Viscosa dove sono rimasto fino all’età della pensione e non è stato facile abituarmi al nuovo ambiente.

Patrizia, mia sorella, per oltre quarant’anni si è occupata delle vendite, aprendo il negozio tutti i giorni alle sei e trenta del mattino e chiudendo alla mezza”. Mamma Vilma cucinava per tutti. Finché i fratelli non si sono divisi eravamo in dieci a tavola e vivevamo con le entrate del forno, a cui andavano aggiunti i guadagni di Mario che faceva il tassista occasionale, prima con l’Ardea e poi con una Fiat 1400 nera, adatta per i matrimoni”.

L’ultimo della famiglia che ha gestito il forno è Luigino. Nato nel 1948, figlio di Mario e Dirce, ha fatto il contrario di Otello: dopo aver lavorato alcuni anni in fabbrica, nel 1970, dopo la morte del padre, ha deciso di continuare l’attività di famiglia.

Nel 1974 ha restaurato la casa di Giuseppe Pinat[2], attaccata al forno, e nel ‘76 si è sposato con Marilena Tomasin.

“La preparazione del pane – racconta Luigino – cominciava alle sette di sera del giorno prima con la preparazione di circa tre chili di lievito (è il lievito madre che si tramanda da anni e ogni giorno va rinfrescato). Verso le nove andavo a dormire. La sveglia era fissata per le tre ma ero così abituato che non mi serviva.

Mettevo il lievito nell’impastatrice, aggiungevo acqua, farina, sale, strutto e poi suddividevo l’impasto per fare le varie forme: pagnochis, fetis doplis, bombetis, pagnuts, zavatis, pan di suturc…tutte a mano, eccetto le mantovane che facevo a macchina, specialmente il sabato; quel giorno mi dovevo alzare all’una per fare anche il pane della domenica e lavoravo una media di tredici ore al giorno. I periodi sotto le feste erano i più sacrificati, specie da Pasqua alla festa dell’Ottava, quando si dovevano preparare le pinze.

La prima infornata era pronta ogni giorno alle sei del mattino, così tutti gli operai potevano avere il pane prima di recarsi al lavoro. Anni fa avevamo tanti clienti che si recavano a Manzano e d’inverno, nell’attesa della corriera, si fermavano nel forno a scaldarsi.

Una volta la gente consumava molto più pane di oggi e la farina era più sostanziosa. I contadini ci portavano la loro farina e ricevevano lo stesso peso di pane. Da tanti anni compravo la farina a Pordenone o a Trivignano, nel mulino di Moras; comunque era sempre farina friulana.”

Luigino mi ha raccontato tutto questo con semplicità, senza vantarsi di aver fatto questa vita per oltre mezzo secolo, ma la sorella Ausilia aggiunge: “Utu che ti conti? Luigino si à sposât dal 1976 e nol à nancia fat al viaz di gnossis! Tal doman al era za tal for! Marilena, la sô femina, a je una santa che si è adatada a fâ la stessa vita sacrificada di Luigino sensa mai lamentasi. Basta pensâ che in tanc’ains no àn mai fat una vacansa, mai un viaz. Forsi par chist i doi fioi àn sielsût di fa un altri lavôr!”

Eppure, nonostante gli orari impossibili Luigino non si è mai isolato: sia lui che il padre, lo zio e Otello, hanno sempre fatto parte di qualche coro e partecipato alle feste tradizionali locali, come quella dell’Ottava o quella di San Biagio ad Alture (il pane benedetto che si distribuiva quel giorno era fatto dai Paviz).

Avendo svolto quel mestiere con amore e sapendo quanto importante era per la comunità, non gli è stato facile prendere la decisione di chiudere. Una bella spinta gliel’hanno data le ultime bollette del gas più che triplicate.

Ora Luigino potrà dedicare più tempo alle passioni che ha sempre coltivato: i lavori in campagna, la caccia, la cura degli animali (oltre a tre cani da caccia ha un cavallo che anche se ormai non gli serve come bestia da lavoro gli si è così affezionato che non riesce a separarsene).

I clienti non possono che ringraziare i Paviz per quello che hanno fatto fino ad ora e augurare a Luigino e Marilena che si godano la meritata pensione.

A Perteole, purtroppo, resterà questo vuoto incolmabile, specie con l’avvicinarsi della Pasqua quando ci mancheranno le loro profumatissime pinze, e dovremo abituarci al nuovo che avanza inesorabile cancellando attività gestite con tanta competenza come questa.



[1] Un articolo apparso su Il Socialista Friulano del 1912: …sempre infamie nella fabbrica Chiozza: un altro innocente, padre di tenera prole gettato sul lastrico. All’operaio Luigi Pavis il Direttore ha eruttato sul viso il licenziamento. Un’altra vittima condannata all’indigenza dai ben pasciuti direttori dell’amideria Chiozza & Comp…

[2] Nel restaurare l’edificio sono venuti alla luce importanti affreschi del ‘700. Probabilmente in quell’epoca la casa era abitata dall’amministratore delle Benedettine di Aquileia, che possedevano dei beni anche Perteole.

 

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