Il limpido stupore dell’immensità

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Vanni Veronesi

7 Maggio 2012
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Il Friuli Venezia Giulia di Giuseppe Ungaretti

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 «QUEL NULLA D’INESAURIBILE SEGRETO»

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto il 10 febbraio 1888. Il padre Antonio, operaio nel cantiere del Canale di Suez, muore sul lavoro nel 1890 e Giuseppe cresce solo con la madre, che lo indirizza verso ottime scuole. Ben presto conosce artisti, entra in contatto con grandi intellettuali, segue le riviste letterarie di Italia e Francia. Nel 1912 lascia l’Egitto e raggiunge Parigi, dove stringe amicizia con i massimi artisti dell’epoca. Nel 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale e Giuseppe ripara a Milano, ma l’anno dopo anche l’Italia interviene: chiamato alle armi, soldato del 19° Fanteria, viene mandato sul Carso ed è proprio qui che fiorisce la sua poesia. Nel dicembre del 1916, a Udine, dà alle stampe tramite l’amico Ettore Serra un libello con trentadue brevi poesie, in soli ottanta esemplari. è Il porto sepolto, dal titolo della seconda lirica: «Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde // Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto». Nel 1919 esce la seconda raccolta, sempre con poesie di guerra composte in regione: Allegria di naufragi. Su questi carmi, Ungaretti apporterà continue modifiche fino all’edizione definitiva del 1942.

DALLA SLOVENIA AL VALLONE

La poesia che apre Il porto sepolto è la struggente In memoria, dedicata all’amico Moammed Sceab, che seguì Ungaretti dall’Egitto a Parigi, suicida nell’estate del 1913 perché «non aveva più / Patria […] e non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono». Il testo reca la dicitura: «Locvizza il 30 dicembre 1916». Ed è proprio da Locvizza, oggi Lokvica in Slovenia, che parte il nostro viaggio: qui Ungaretti compose anche Attrito, Distacco, Nostalgia, Italia e Commiato. Attorno al monte Cerje, dominato dal recente Monumento ai difensori della terra slovena, si estende un’area vastissima in cui la vegetazione protegge tombe e cippi in memoria dei caduti di tutte le nazionalità nella Prima Guerra Mondiale.

Dalla strada Miren-Opatje selo, svoltando a sinistra poco prima di Lokvica e addentrandosi lungo il sentiero sterrato, troviamo fra gli alberi un sepolcro incastonato nella roccia e i ruderi del cimitero italiano. Il primo reca in alto la scritta «Ivi s’acqueta l’alma sbigottita»: è un verso del carme CXXIX di Francesco Petrarca; il secondo è in condizioni disastrose, sopravvive solo la cappelletta. Ritorniamo in Italia a Devetachi, minuscolo borgo dove il poeta scrisse Universo, Sonnolenza e il capolavoro La notte bella: «Quale canto s’è levato stanotte / che intesse / di cristallina eco del cuore / le stelle // Quale festa sorgiva / di cuore a nozze // Sono stato / uno stagno di buio // Ora mordo / come un bambino la mammella / lo spazio // Ora sono ubriaco d’universo».

Da Devetachi passiamo lungo il Vallone, un territorio aspro oggetto di scontri ferocissimi nel ‘15 – ‘18: eppure, Sempre notte, Un’altra notte, Sogno e Rose in fiamme ci parlano, qui, di un Ungaretti a contatto con il mistero dell’infinito. Fino alla rivelazione di Vanità: «D’improvviso / è alto / sulle macerie / il limpido / stupore / dell’immensità // E l’uomo / curvato / sull’acqua / sorpresa / dal sole / si rinviene / un’ombra // cullata e / piano / franta».

SAGRADO E IL MONTE SAN MICHELE

Attorno al monte San Michele, Austriaci e Italiani si scontrarono dal giugno del 1915 all’agosto del 1916: cinque battaglie per conquistare un minuscolo lembo di territorio. Sommando i caduti di entrambe le parti, si arriva al numero di 111.696. In quell’inferno, Ungaretti trovò nella poesia l’unica possibilità di sopravvivenza morale, senza mai usare il termine ‘nemico’: perché nella morte – e la guerra è morte – si è tutti fratelli. Il nostro percorso comincia a Sagrado, località Castelnuovo, dove da pochi anni è stato istituito il Parco Giuseppe Ungaretti all’interno dello splendido giardino di Villa Della Torre – Hoffer – Hohenlohe: dieci poesie scolpite su pietra o impresse su lastre sparse nell’amenissimo giardino.

L’attuale villa, immersa fra viti e olivi e sorta in luogo di un’altra dimora nobiliare cinquecentesca, risale al 1770. All’interno, nella Prima Guerra Mondiale, molti soldati lasciarono dei commoventi graffiti, tuttora leggibili: ed ecco che, quasi un secolo dopo, questi uomini tornano a parlarci. Su tutti, ci colpisce la scritta n. 153: «Amaglio Virginio da Bergamo, organista di Loreto, qui combatté ma le ossa non lasciò». Arriviamo quindi a San Martino del Carso, oggetto dell’omonimo carme: «Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro // Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto // Ma nel cuore / nessuna croce manca // È il mio cuore / il paese più straziato». Quel «neppure tanto» era un’allusione all’amico Filippo Corridoni, morto in conflitto: il suo corpo non venne mai trovato. La lirica fu scritta poco sopra il paese, al Valloncello dell’Albero Isolato, scenario anche di Pellegrinaggio e Monotonia.

Entrare in questo luogo è un’esperienza toccante: ci sembra che Ungaretti sia ancora lì, seduto su una delle pietre a guardare il cielo e a scrivere versi sul suo taccuino. Salendo a una quota superiore si arriva al Valloncello di Cima Quattro, dove riecheggiano ancora le parole di In dormiveglia e, soprattutto, la forza terribile di Sono una creatura: «Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata // Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede // La morte / si sconta / vivendo». Quindi, Cima Quattro: è proprio questo il punto in cui Ungaretti cominciò la sua esperienza di guerra. Da questa altura, il 22 dicembre 1915 scrisse Lindoro di deserto, con il ricordo ancora vivo di Alessandria d’Egitto; ma bastò una notte, una sola, per fargli cambiare tono. Il 23 dicembre, il poeta compose una delle sue liriche-manifesto: Veglia. Novantasette anni dopo, siamo qui a rileggerla: «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita». Tutto intorno, sassi, terra rossa, trincee e chilometri di gallerie scavate nella roccia. Più dolce il paesaggio, come rivela il tono delicato di Malinconia, a Quota Centoquarantuno; da qui si vede il Bosco Cappuccio protagonista di C’era una volta: «Bosco Cappuccio / ha un declivio / di velluto verde / come una dolce / poltrona // Appisolarmi là / solo / in un caffé remoto / con una luce fievole / come questa / di questa luna».

COTICI E L’ISONZO: I FIUMI

Arrivati a Cotici, siamo rapiti dall’emozione; è in questa località che Ungaretti diede vita a una poesia che ha fatto la storia della letteratura mondiale: I fiumi. Scena notturna iniziale: «Mi tengo a quest’albero mutilato / abbandonato in questa dolina / che ha il languore / di un circo / prima o dopo lo spettacolo / e guardo / il passaggio quieto / delle nuvole sulla luna». Poi, un’istantanea: «Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato // L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un suo sasso». Due strofe dopo, la presa di coscienza: «Questo è l’Isonzo / e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra / dell’universo». La memoria del poeta va quindi agli altri fiumi della sua vita: «[…] Questo è il Serchio / al quale hanno attinto / duemil’anni forse / di gente mia campagnola / e mio padre e mia madre // Questo è il Nilo / che mi ha visto nascere e crescere / e ardere d’inconsapevolezza / nelle estese pianure // Questa è la Senna / e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto // Questi sono i miei fiumi / contati nell’Isonzo / Questa è la mia nostalgia / che in ognuno / mi traspare / ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre». Per godere di una vista panoramica sull’Isonzo, lasciamo il Carso (che in un punto imprecisato ha ispirato il poeta in Perché?) e ci rechiamo sui ponti di Sagrado prima e Piedimonte poi; e poi via, di nuovo in viaggio.

DA MARIANO ALLA BASSA FRIULANA

Le soste nelle campagne friulane rappresentavano un momentaneo allontanamento dalla trincea. A Mariano Ungaretti scrisse ben otto poesie, ovvero Il porto sepolto, Fase, Silenzio, Peso, Dannazione, Risvegli, Destino e Fratelli, che racconta l’effetto di una voce amica nell’oscurità più infida: «Di che reggimento siete / fratelli? // Parola tremante / nella notte // Foglia appena nata // Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità // Fratelli». A Versa addirittura dieci: A riposo, Fase d’Oriente, Tramonto, Annientamento, Stasera, Allegria di naufragi, Inizio di sera, Lontano, Trasfigurazione, Godimento. Vi arriviamo quando ormai è sera e il buio scende sulla stradina diretta alla cinquecentesca chiesa della Beata Vergine Lauretana; i versi di Tramonto cadono a pennello: «Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore». Ritroviamo la stessa elegia in alcune strofe mirabili di Giugno, scritta a Campolongo, che raggiungiamo nella sera illuminata da luci suggestive: «[…] Nella trasparenza / dell’acqua / l’oro velino / della tua pelle / si brinerà di moro // Librata / dalle lastre / squillanti / dell’aria sarai / come una pantera // Ai tagli mobili dell’ombra / ti sfoglierai // Ruggendo / muta in / quella polvere / mi soffocherai // Poi / socchiuderai le palpebre // Vedremo il nostro amore reclinarsi / come sera […]». Il viaggio finisce a Santa Maria la Longa: nella piazza del municipio sorge un monumento in onore delle tre liriche scritte qui. Ai lati, due pietre con i versi di Solitudine e Dormire; al centro, il pezzo forte: Mattina, con il celebre distico «M’illumino / d’immenso». Il miglior congedo che si possa immaginare.

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