Julius Kugy, il cantore delle Alpi Giulie, definì l’Isonzo il fiume più bello d’Europa e noi che viviamo lungo le sue rive condividiamo totalmente questa affermazione. La forza spirituale e umana, che promana dall’Isonzo e ha ispirato la nostra civiltà, emerge prepotente, prorompendo nella storia che ha visto in fatti eroici e memorabili sangue, speranze, tormenti.
Ma tutti sappiamo che la storia millenaria di questo fiume non è sempre stata vissuta in pace, anzi è stata più volte segnata da scontri inumani e sanguinosissime guerre; basti ricordare le dodici battaglie dell’Isonzo, che scandirono i tempi della Prima Guerra Mondiale con milioni di morti. Non bastassero quelli i governanti europei pensarono bene di farne una seconda al fine di regolare, come dissero, i conti lasciati in sospeso dalla prima.
Le speranze di pace sono le ultime a morire e pacifisti come Ervino Pocar, Giuseppe Ungaretti, Biagio Marin, Silvio Domini e Celso Macor hanno sempre auspicato che la storia di questo fiume ritornasse a essere a dimensione umana, condizione indispensabile a garanzia del nostro vivere civile, per non dimenticare quale monito ai viventi, tutti i suoi “drammi e la sua grandezza”.
Tralasciando queste brevi riflessioni, alimento necessario per la vita dello spirito, ritorniamo con la mente indietro nel tempo e come in un flashback ci portiamo sulla riva sinistra dell’Isonzo in prossimità dei tre ponti di Pieris la mattina del 18 gennaio 1945. In quel periodo buona parte dell’Italia settentrionale era ancora presidiata dell’esercito germanico ormai in ritirata: le stazioni e i cantieri del Cervignanese e del Monfalconese, divenuti obiettivi militari, erano soggetti a continui bombardamenti da parte degli aerei anglo-americani.
La notte aveva abbondantemente nevicato. Pochi minuti prima di mezzogiorno di quel nefasto 18 gennaio 1945 una formazione di aerei della R.A.F. – Royal Air Force inglese (chi dice fossero quattro, chi sei caccia bombardieri Thunderbolt), provenienti da sud con il sole alle spalle, attaccarono trasversalmente la linea ferroviaria e i ponti della tratta Monfalcone-Cervignano. Volando a bassissima quota in fila indiana, sganciarono una dozzina di bombe da 1.000 libbre, con l’intento di colpire i piloni di sostegno dei ponti.
Una bomba, non impattando con le arcate e i piloni del ponte, finì a più di duecento metri oltre la ferrovia, centrando in pieno un gruppo di lavoratori della Todt che si erano rintanati in un bunker. Erano operai dei paesi vicini, che stavano riparando i danni provocati alla ferrovia dalle incursioni aeree dei giorni precedenti, mentre altri caricavano vagoni di ghiaia per la costruzione di opere di difesa nelle città e nei cantieri di Trieste e Monfalcone.
I corpi rimasti a terra furono tredici, tutti per morte istantanea. Sette originari di Fiumicello, due di Pieris, tre di Turriaco e un militare della R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana) che era di guardia. Compiuta la “missione”, che durò meno di cinque minuti, gli aerei fecero un’inversione di rotta sopra Cassegliano e Villesse, ritornarono sui ponti e a volo radente effettuarono un mitragliamento di “saluto”, dopodiché si allontanarono verso quella parte dell’orizzonte da dove erano venuti.
Poco dopo, nel silenzio più totale, da Turriaco si sentì l’orologio del campanile battere le ore: erano le dodici. Seguirono di poco i rintocchi del mezzogiorno. I ponti non furono nemmeno sfiorati dalle bombe e, da lontano, avvolti dal fumo, sembravano scheletri immobili più alti e grigi di prima, a monito di una nemesi beffarda. Ciò che rimase dei tredici corpi fu raccolto, messo in sacchi di canapa e pietosamente composto nelle cappella del cimitero di Pieris, la più vicina in linea d’aria.
Il giorno seguente, 19 gennaio, le bare furono trasportate nei paesi di Turriaco, Fiumicello e Pieris per la sepoltura. I sette di Fiumicello furono deposti in un’unica tomba, mentre quelli di Turriaco e Pieris in tombe separate. I sette originari di Fiumicello erano Corrado Puntin (nato a Fiumicello il 16/1/1925, contadino), Dionisio Bianchin (San Pier d’Isonzo 25/5/1921,contadino), Antonio Tamai (San Stino di Livenza il 26/11/1904, capo cantiere), Adelchi Dreas (Fiumicello 23/8/1926, contadino), Guerrino Simeon (Fiumicello 3/11/1926, contadino), Silvano Franzot (Fiumicello 10/12/1926, operaio) e Gualtiero Pelòs (Fiumicello 16/11/1900, operaio). I due di Pieris erano Umberto Biason (San Michele al Tagliamento 27/7/1903, bracciante) e Domenico Fantini (Cussignacco 11/4/1900, facchino). I tre di Turriaco furono Giovanni Farfoglia (Turriaco 27/7/1893), Beniamino Milani (Loreggia (PD) 1/5/1898, manovale) e Giovanni Moro (Aquileia 15/9/1893, bracciante). Il militare di guardia era Eugenio Dinetti, 23 anni, di Buon Convento in provincia di Siena.
Settant’anni dopo, a seguito di alcune proposte promosse dal Circolo Culturale e Ricreativo don Eugenio Brandl di Turriaco, iniziate nel dicembre 2014 e culminate con la pubblicazione del 5° Quaderno Turriachese dal titolo “18 gennaio 1945 un giorno non qualunque”, è stata restituita alla comunità una memoria ritenuta ormai perduta. Si tratta di una pregevole ricostruzione dei fatti, ricca di interviste, immagini inedite e preziosi documenti dell’epoca.
Le testimonianze orali raccolte, alcune trascritte, altre registrate su nastro magnetico, sono diventate per la loro particolarità documenti di straordinaria freschezza e attualità, ricchi di sensazioni e amari ricordi, che vanno dalla rabbia al commovente, dal grottesco all’indignato. C’è chi sostiene che il destino non esiste e che è stato inventato dagli uomini per giustificare ciò che non riescono a comprendere e a dominare.
Alcune storie però hanno dell’incredibile, come per esempio quella di Dionisio Bianchin di Fiumicello, che morì due giorni prima di sposarsi. O quella di Domenico Fantini di Pieris, che si era licenziato dal cantiere di Monfalcone per paura delle bombe e morì sotto quelle di Pieris.
Singolare il racconto di Fiore Trentin, di Turriaco: sui bombardamenti dei ponti ricorda ancora che l’allarme aereo suonava solo quando gli apparecchi erano vicinissimi, quasi sopra. Per questo non tutti riuscivano a mettersi in salvo in tempo e restavano allo scoperto. Durante uno dei tanti bombardamenti che si susseguirono in quei giorni, nella foga di scappare, Fiore cadde giù dal ponte sul ghiaione e si ruppe il femore di una gamba. Così rimase lontano dai ponti, salvandosi.
Ma la storia che ha dell’inverosimile è quella capitata ad Aldo Zorba di Fiumicello, che allora aveva venti anni. Così Aldo ricorda il fatidico 18 gennaio 1945. “Era quasi mezzogiorno quando la sirena iniziò a suonare. Buttai via il badile e mi misi a correre verso il rifugio che era a duecento metri dalla ferrovia. Vidi gli altri correre davanti a me. Io ero rimasto indietro e pensavo che non ce l’avrei mai fatta ad arrivare in tempo nel rifugio assieme a loro e che gli apparecchi mi avrebbero ucciso prima. Cercai di correre a più non posso, ma per la foga di raggiungere gli altri, inciampai in un cespuglio e finii a faccia in giù nelle ghiaia. Gli aerei ormai rombavano sopra di me. Alzai gli occhi per guardarmi intorno e vidi una grossa bomba passarmi sopra la testa: ci fu un floscio fischio e la bomba cadde ad una cinquantina di metri davanti a me, proprio dov’era il rifugio. Sentii una fortissima esplosione che mi stordì (soi stat sdrondenat come co si sdrondena la puarta, mi pareve di vé al cur dispiciat in man, nella testimonianza originale in friulano, ndr). Rimasi a terra quasi svenuto. Quando mi ripresi vidi che dove prima c’era il rifugio ora non c’era più niente. Solo un fumo azzurrognolo e l’odore acre dell’esplosione. Mi toccai qua e là e mi misi a correre e non vedevo l’ora di ritornare a casa da mia madre che mi vedesse che ero ancora vivo”.
Felicita Dreas, di Fiumicello, ricorda di quando suo fratello, che allora aveva diciotto anni, fu obbligato dai tedeschi a lavorare per la Todt e morì sotto il bombardamento dei ponti di Pieris mentre un suo compagno di Papariano, trovandosi in mezzo al ponte della ferrovia e non avendo scampo, si salvò gettandosi nell’acqua gelata sotto un pilone.
Vittorio Tamai, di Fiumicello, ricorda che suo padre Antonio, capo cantiere, non andava mai nel rifugio e quando suonava l’allarme scappava verso i campi. Quel giorno invece andò nel rifugio: chissà perché il destino, quel maledetto, a volte gioca contro. Fino a che erano rimaste in vita, le madri le spose e i figli dei morti venivano il 18 gennaio di ogni anno sull’Isonzo a portare fiori e a pregare sul luogo della disgrazia, dove i fratelli Dreossi di Pieris avevano eretto per loro iniziativa un monumento in ferro in segno di pietà cristiana. Dopo una ventina d’anni il monumento fu rubato da sconosciuti imbecilli per ricavare ferro da vendere e così la memoria andò scolorendosi sempre più fino a scomparire del tutto.
Il 18 gennaio 2015, settant’anni dopo quel tragico evento, alla presenza dei sindaci e amministratori dei comuni di Turriaco, Fiumicello e San Canzian d’Isonzo, dei parenti delle vittime e delle classi III delle Scuole Medie di Pieris-Turriaco e Fiumicello, accompagnate dai loro insegnanti, si è svolta sul fiume Isonzo, nello spazio antistante ad un nuovo monumento, la toccante cerimonia della commemorazione. Con la benedizione impartita dal parroco don Enzo Fabrissin e il ricordo dei nomi dei caduti.
E finalmente anche questi morti hanno avuto il giusto e umano riconoscimento come vittime di una guerra senza senso.
Ponendo rimedio a ciò che il tempo e la non curanza delle istituzioni avevano contribuito a rimuovere dalla memoria. Nel suo splendido eterno scorrere dalle Alpi Giulie, dove nasce, al mare dove muore, in un solo giorno, l’Isonzo si offre quotidianamente a tutte le genti come una “…docile fibra dell’universo…”, accomunandole nella vita e nelle vicende, nei sentimenti e nelle speranze.