Homo litteratus Tergestinus

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Michele D'Urso

24 Marzo 2015
Reading Time: 5 minutes
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Willy Piccini

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Questa volta voglio cavalcare l’onda del campanilismo, e nella nostra regione di campanilismi ce ne intendiamo. Tante volte ho sentito quelli che vedono il sole sparire dietro il monte, chiedersi come sarebbe la vita se al tramonto si potesse gustare la brezza del mare. Ho visto anche sospiri da innamorati di passanti lungo le rive marine mentre ammiravano le cime innevate. Storie di vita quotidiana in una regione dal fascino sempre nuovo. Per fortuna, per poter raccontare queste storie esistono gli scrittori, alcuni dalla fama internazionale. Willy Piccini, cantore in più versioni, anche teatrali, di una Trieste romantica che ancora oggi incanta, è un loro discendente.

Willy, quando ha cominciato a scrivere?

«Forse già dall’asilo, perché ancor prima di andare a scuola sapevo leggere. E uno scrittore è prima di tutto un grande lettore. Sono nato nel 1948 e come per tutti i miei coetanei da bambino l’interesse principale era il pallone. Poi, a 15 anni, andai nella ‘Biblioteca del Popolo’ e lì mi innamorai dei libri. Di loro mi piacque tutto: dall’odore della stampa allo sfuggente suono delle pagine sfogliate. Fu un colpo di fulmine».

Eppure lei non ha esordito giovanissimo in campo letterario…

«Bisognava lavorare. Qui a Trieste, fra profughi e messi male in arnese, non dico fosse fame nera, ma almeno grigia scura si. Cercavo di scrivere per me. Annotavo tutto, pensieri o accadimenti, sui lembi di carta più disparati: dai ritagli di giornale alla carta oleata del bottegaio. Poi mettevo tutto da parte perché speravo che un giorno, quelle mille e mille storie, le avrei scritte davvero».

Andò così?

«A volte gli angoli in cui nascondiamo le cose vengono riordinati da terze persone… Un giorno nefasto il mio babbo – non gliene farò mai una colpa perché la vita andava così – mise ordine buttando via tutti i miei pizzini».

A proposito di famiglia: il suo cognome, pur essendo molto diffuso, non è propriamente triestino.

«Le origini sono lontane, forse toscane, ma i miei antenati erano qui già dal Medioevo. I trisavoli avevano fondato a Vienna un negozio che esiste ancora oggi e che continua a portare il loro nome. Io sono cresciuto nel popoloso, ma bellissimo, rione di San Giacomo, in un sottoscala umido e maleodorante dove vivevamo in cinque; io, i miei genitori e due fratelli di mio padre molto più giovani di lui. Questa situazione fu lo spunto per il mio racconto Cinque in un baccello! E non stiamo parlando dei fagioli…»

Anni difficili.

«Con il tempo le cose si aggiustarono un po’ per tutti e io, dopo il diploma, mi impiegai presso le Ferriere di Servola dove già aveva lavorato mio papà. Ufficio personale e paghe. Eravamo in due soli e lavoravamo come matti».

Niente tempo per scrivere, quindi…

«Leggevo molto, magari solo per me o anche per altri, qualche lettera o qualche dedica la scrivevo. Leggevo libri che custodisco gelosamente ancora oggi. Posseggo più di quattromila volumi, che sono solo una piccola parte delle mie letture».

Un libro è sempre un ottimo amico. Si fa fatica anche a prestarlo…

«Infatti non li presto mai! Tanto lo so che poi non tornano. In un libro le storie sono vive, sempre. Anche se lo si dovesse usare in sostituzione del piedino dell’armadio, un libro ha la vita dentro».

Per scrivere ha dovuto aspettare la pensione?

«Io sono un inguaribile ottimista. Anche nei frangenti più ostici della vita ho sempre conservato in me la certezza che ce l’avrei fatta a superare tutte le difficoltà che mi si ponevano dinanzi. Ho cresciuto mio figlio quasi da solo perché, quando lui era appena adolescente, io e mia moglie ci siamo separati. Non mi spaventa quasi nulla, ma anch’io ho bisogno di aver intorno le persone giuste, di sentirmi apprezzato, perché è questo che dà la carica per eccellere. Ogni persona di successo ha un nutrito fan’s club che lo incita: io ho una persona sola ma che vale per un esercito, la mia seconda moglie Maria Teresa Rodriguez. Le soddisfazioni che ho avuto in campo letterario le devo in gran parte a lei che mi sprona e ha sempre creduto in me».

Fino a giungere ai primi concorsi di narrativa…

«Partecipare ai concorsi stimola, specialmente se si viene apprezzati. Pubblicare il mio primo libro, Una corsa incontro al passato, è stata così una conseguenza naturale. Per questo testo ho ricevuto una lettera di complimenti da parte di uno dei miei autori preferiti, Claudio Magris».

Una lettera che vale mille medaglie. Lei però ha anche vinto quattro primi premi, oltre a un sacco di piazzamenti d’onore. Poche pubblicazioni ma con grande attenzione alla qualità.

«Nel campo del self publishing si trovano testi davvero imbarazzanti. Altri, come alcuni miei allievi del Corso di scrittura creativa che tengo alla “Università della libera età”, meriterebbero invece di essere pubblicati e letti. Ma così va il mondo».

Se fosse un giovane d’oggi sarebbe sempre ottimista?

«I tempi sono difficili. Anche mio figlio, uomo fatto di oltre trent’anni, al momento è senza lavoro, ma lo stesso io resto ottimista. La speranza, la poesia dei sentimenti, la bellezza della vita la si trova in ogni momento e in ogni parte del mondo. Perché qui dovrebbe essere diverso?»

Quindi sono i pensieri che creano la realtà?

«Assolutamente si. Tutti lo dicono ma pochi ci credono davvero. Penso ai tanti scrittori che hanno narrato storie di ‘fantasia’ ritenute utopiche, ma rivelatesi veri e propri ‘Oracoli’, prevedendo in anticipo il mondo che sarebbe venuto».

Lei è anche un attore amatoriale: ha scritto una commedia e tre atti unici.

«In una città come Trieste, dove è facile intristirsi nelle giornate di bora ed esaltarsi nei meriggi di estate, bisogna avere un carattere istrionico. D’altronde, con tanti istriani, diventare ‘istrione’ è una diretta conseguenza».

Non solo ottimista ma anche ironico: cuor contento il ciel l’aiuta…

«Sono fatto così. La gente mi chiede come faccio a stare dietro a tutto: io rispondo che in realtà la mia occupazione principale è quella di bagnante, perciò ho tanto tempo libero. O forse sarà che dormo poco e quindi le giornate sono lunghe».

Come mai ha scritto un libro per il suo amico Jacomo?

«James Joyce non è propriamente un amico, ma un mio mito sicuro. Il libro è una ampliata trasposizione su carta di tre conferenze da me tenute sulla “triestinità” dell’illustre scrittore irlandese».

Chiudiamo con un bilancio personale: quale evento le ha dato maggiore soddisfazione?

«Tutte e quattro le vittorie sono attimi di felicità. Quella al concorso di Grottammare è per me particolare, in quanto mia moglie, psicoanalista e psicoterapeuta, tiene spesso lì dei seminari. Esserci andato prima come consorte accompagnatore e poi come premiato del concorso letterario, è stata una bella soddisfazione. Quasi come la lettera di Magris o le parole di Pino Roveredo, che al concorso vinto a Malnisio mi ha salutato con un “Ciao collega!”».

Triestini; gente alla mano, che ne ha viste tante e le ha sempre superate. Come Willy Piccini e la sua allegria che mi ha ormai contagiato.

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