Abdon Pamich ad Abbazia
Abdon Pamich ha nobilitato, più di altri protagonisti del suo tempo, il motto latino “per aspera ad astra“, perché ha trovato accomunati nella marcia la fatica e il sudore, la poesia dello sport e il valore tangibile del riscatto.
“Noi ci siamo divertiti tanto, pur faticando tantissimo e senza i mezzi che ci sono oggi… ma la marcia per me è stato anche un riscatto: ero profugo, avevo tanta energia da sfogare. Poi è diventata poesia e anche se arrivavamo quinti o sesti contro i mostri dell’Est, eravamo felici come se avessimo vinto …”
È l’emblematica riflessione del nostro campione, nato nel 1933 a Fiume, allora città italiana, che abbandonò nell’autunno del 1947, a neanche quattordici anni, in modo rocambolesco assieme al fratello maggiore Giovanni (che all’epoca aveva quindici anni) per un anelito di libertà.
Era il periodo buio di inizio dopoguerra, segnato dagli esiti del Trattato di Pace di Parigi (10 febbraio 1947) e dalle vessazioni e imposizioni del regime totalitario iugoslavo subentrato in Istria, a Fiume e in Dalmazia. L’aver saputo affrontare l’ignoto con estrema determinazione e cuore saldo, superando disagi e sofferenza, ostacoli, insidie e pure indifferenza e diffidenza, è stata una prova da parte dei due giovani di assoluta fiducia nel futuro e di proverbiale maturità.
Abdon Pamich, attraverso questa intervista, tratteggia uno spaccato storicamente vivo su Fiume, città esemplare per l’integrazione tra ‘radici’ diverse: una singolare testimonianza con un richiamo struggente al passato, ma con lo sguardo rivolto al presente e aperto al domani.
Fiume, il mare splendido del Quarnero, di Costabella e Abbazia, gli anni spensierati dell’infanzia prima della tempesta, la fuga verso la libertà con Giovanni all’alba del 23 settembre 1947: quali sentimenti evoca in lei tutto ciò?
«Ricordo di aver trascorso una splendida giovinezza in una città che fino alla fine della seconda guerra mondiale aveva conservato quelle che erano le sue prerogative, cultura e usi in essere sotto l’Impero Austro-Ungarico. Una città cosmopolita, punto d’incontro di genti di lingua, di cultura e di religione diverse. Una città che, nonostante sia stata assoggettata a varie dominazioni, spiritualmente non è mai appartenuta a nessuno, mantenendo sempre vivo il suo patrimonio culturale, la sua lingua il suo dialetto. Questa caratteristica, tipica dei fiumani, è stata recepita dall’Ungheria, che le aveva concesso una certa autonomia nel contesto del Regno, proclamando con un editto la Città ‘Corpus separatum’ nell’ambito del Regno stesso. I personaggi protagonisti della sua storia, che avevano studiato nelle principali Università europee, da Vienna a Graz, da Budapest a Padova, da Bologna a Firenze, hanno accentuato la vocazione cosmopolita di Fiume. Proprio per tale caratteristica le persone che vi affluivano da tutte le parti dell’Impero (c’erano anche cittadini di religione ebraica) si integravano perfettamente in meno di una generazione, considerandosi fiumani a tutti gli effetti, parlandone il dialetto e acquisendo usi e costumi che hanno contribuito alle fortune della Città. Caso emblematico il Senatore Leo Valiani. Fra i miei compagni di scuola c’erano ragazzi che a casa parlavano chi ungherese, chi tedesco, chi croato o più di una lingua frequentando le scuole italiane e parlando il dialetto. In questo clima non mi sono mai posto il problema se fossero italiani, croati, oppure tedeschi. Tutto ciò faceva parte della normalità in una piccola città, non una città provinciale chiusa in se stessa. Devo dire che per noi fiumani questa è stata una fortuna. Fiume, oltre a essere il secondo porto dell’Impero per traffico di merci e passeggeri, era sede dell’lmperial Regia Accademia Navale».
Come trascorrevate le vostre giornate?
«D’estate fra mare e montagna, il luogo si prestava a tali attività data la conformazione orografica del territorio. Con nostalgia ricordo il tempo trascorso con entrambi i nonni, i cugini, gli zii, tra i quali zio Cesare grande appassionato di sport, che mi ha trasmesso la sua passione, specialmente per il pugilato. Con le vicissitudini seguite alla conclusione della guerra tutto questo ha avuto un inevitabile epilogo, la grande famiglia si è smembrata, ognuno per la sua strada, sparsi nel mondo: dovemmo ricostruire la nostra vita dall’inizio. I giorni della fuga e quelli successivi mi evocano ricordi di un’immensa nostalgia e abbandono la fine di un sogno di un ragazzo non ancora quattordicenne».
Dopo quella fuga, le peregrinazioni da un campo profughi all’altro, da una città all’altra (Trieste, Milano, Udine, Novara), nell’autunno del 1947 riprendeste con profitto gli studi alle Superiori a Novara (Lei presso l’Istituto Tecnico per Geometri e Giovanni al Liceo Classico) e l’anno successivo la famiglia (papà Giovanni, mamma Irene e i quattro figli Giovanni, Abdon, Raoul, Irma) poté finalmente ricomporsi a Genova, dove vostro padre aveva trovato un nuovo impiego e una sistemazione abitativa accettabile. Quale fu l’impatto con la realtà genovese per una famiglia che aveva perso praticamente tutto, tranne la speranza e la fiducia nel domani?
«L’impatto non fu facile, poiché c’era molta diffidenza nei nostri confronti, quando non c’era ostilità. Dopo il campo profughi di Novara, la nostra prima sistemazione fu in una frazione del Comune di Serra Ricò a circa dieci chilometri da Genova. Nel paese l’unico punto di incontro era la sede del Partito Comunista e un circolo famigliare sempre di colore rosso. Noi eravamo fuggiti da quello che loro consideravano il paradiso socialista, di conseguenza eravamo considerati dei fascisti. Col tempo capirono chi eravamo veramente e ci accettarono. Dopo qualche anno, ci trasferimmo a Genova, cosicché la sistemazione fu più confortevole. Pure là incontrammo qualche diffidenza, superata subito, per cui fummo rispettati e stimati. Genova fu la mia seconda patria, che ancora rimpiango di averla dovuta abbandonare».
Ora parliamo di sport: come avvenne il suo approccio a una disciplina molto impegnativa come la ‘marcia’?
«Devo l’approccio alla marcia puramente al caso. Nella mia testa c’erano tanti sport, ma non avevo mai pensato a quella disciplina. Seguii le orme di mio fratello Giovanni, anche qui casualmente. Infatti, recatomi al campo sportivo per allenarmi per la corsa campestre, fui contattato da un allenatore: chiedendomi il nome, in analogia con quello che faceva mio fratello, mi indirizzò all’allenatore della marcia, Giuseppe Malaspina, col quale stabilii un sodalizio che durò tutta la mia carriera. A lui devo tutto ciò che ho fatto dopo».
II suo palmarès è straordinario, frutto di prestigiosi risultati conseguiti in tutto il mondo. Dal 1955 al 1971 ha partecipato a 5 Olimpiadi, a 3 Giochi Europei, a 3 Giochi del Mediterraneo e a oltre 40 Campionati italiani assoluti, con riscontri eccezionali. Ha gareggiato su distanze diverse, 10-20-50 Km… Ma possiamo affermare che proprio la 50 Km è la sua gara?
«Sì, anche se ho gareggiato su tutte le distanze, dai 1500 indoor alla Londra-Brighton di 83 Km fino alla 100 Km. La ritenevo la distanza ideale per le mie qualità, sia fisiche che psicologiche».
Dopo il matrimonio con Maura e la nascita di Tamara e Sennen, lei ha saputo conciliare il tempo professionale e famigliare con quello sportivo (allenamenti quotidiani, trasferte, gare), dedicandosi pure agli studi superiori con lauree in Sociologia e in psicologia, trovando anche il tempo per l’insegnamento. Quante ore aveva la sua giornata?
«Avendo tanti impegni non posso dire di essere stato un marito e un genitore ideale e nemmeno un uomo in carriera lavorativa: ero troppo assorbito da questa passione, per la quale ho dato il massimo di me stesso. La mia giornata mediamente era di diciassette, diciotto ore».
Il prossimo anno, il 2020, la città di Fiume sarà capitale europea della Cultura: che sensazioni prova per questo prestigioso riconoscimento a una realtà complessa e composita come la Città di San Vito che annovera tra I propri figli del passato eminenti protagonisti delle scienze, della medicina, della storia, della letteratura, dell’industria e dello sport?
«Ne sono molto fiero come fiumano, poiché penso che questo riconoscimento sia dovuto soprattutto al passato culturale delta città: passato che certi nazionalismi hanno un po’ oscurato. Gioisco insieme ai cittadini attuali con i quali ci sentiamo uniti, perché a loro è affidata la storia passata e il futuro di Fiume».
Papà e mamma ora sono ‘ritornati a casa’ (come riporta l’iscrizione posta sulla tomba) e riposano per sempre assieme ai loro vecchi nel cimitero monumentale di Cosala. Anche per questo motivo il suo legame con Fiume è diventato ancora più forte e struggente. Cosa significa per lei essere fiumano?
«Oltre all’orgoglio di essere tra i pochi sopravvissuti di quella cultura di cui ci siamo abbeverati nella nostra fanciullezza, significa essere un cittadino del mondo con quell’impronta di fiumanità che non posso cancellare».
L’Italia fu matrigna nei confronti degli esuli fiumani, istriani e dalmati: indifferenza, timore del foresto, oppure oblio sul dramma e sulle sofferenze della gente… Ma come lei ha affermato più volte, “Nonostante fossi un esule non mi sono mai sentito diverso dai miei compagni. Lo sport appiana tutte le differenze”. Anche oggi lo sport è in grado di esprimere quell’esemplare forza morale?
«Non mi sono mai sentito diverso, almeno nell’accezione che comunemente si dà a questo Termine, indipendentemente dallo sport. Quello che si è nella vita, si è nello sport. Cosa molto più evidente nello sport moderno, inquinato dal denaro».
Siamo in chiusura: quale messaggio desidera rivolgere ai giovani?
«È difficile dare un consiglio ai giovani che venga accettato, poiché considerano gli anziani degli extraterrestri. Ma, vista la domanda, mi sento di dire che in questo mondo, dove si vuole tutto e subito, le sole cose che contano veramente sono quelle che si ottengono con la lotta e il sacrificio. La ‘manna dal cielo’ crea solo insoddisfazione e noia. Per quanto riguarda lo sport, dico che va fatto con gioia, senza pensare necessariamente al risultato o ai guadagni, che possono anche venire, ma sempre come conseguenza della passione, delle capacita e della dedizione: non mi sento di parlare di sacrificio in quanto, se lo sport è un piacere, non è sacrificio».



