Vento, burrasche e bellezza

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Michele Tomaselli

2 Novembre 2017
Reading Time: 8 minutes
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Le isole Fær Øer

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“Che ne dici di trascorrere qualche giorno di vacanza?”, mi suggerì un amico al mio rientro dall’Elbrus. Fu inevitabile aprire Google Maps e individuare un luogo inimmaginabile, oltre le colonne d’Ercole, dove la natura impera selvaggia. Le isole Fær Øer. A prima vista misteriose, queste 18 isole della corona danese che non fanno parte dell’Unione Europea, hanno cascate in ogni dove e sono ubicate in mezzo al nulla, nel cuore dell’Atlantico settentrionale, a metà strada tra Norvegia e Islanda. L’arcipelago delle Fær Øer è abitato stabilmente e costituisce una nazione autonoma con un proprio Parlamento, una propria lingua, una propria bandiera e batte perfino una moneta. Una meta superlativa e culturalmente aperta, tra i luoghi da visitare secondo la classifica Best Trips 2015 di National Geographic. Quindici giorni più tardi presi un aereo e dopo aver effettuato uno scalo a Copenaghen raggiunsi il 62° parallelo…

Atterrare alle Fær Øer è sconsigliato ai deboli di cuore. L’aeromobile si abbassa velocemente e sfida correnti impetuose. La nebbia e la pioggia rendono l’atterraggio difficile. Si ha l’impressione di planare sul mare per imboccare la pista di Vagar, dove gli aerei decollano e atterrano quasi a pelo d’acqua. Una pista lunga solo qualche centinaia di metri, che ti tiene con il fiato sospeso sino all’ultimo. Vivere nel subartico non è un’impresa facile, bisogna sopravvivere! Tanto che agli albori fu inevitabile iniziare a cacciare le balene. La mattanza dei cetacei, qui chiamata Grindadráp, è una tradizione che affonda le sue radici nel XVI secolo (le prime documentazioni risalgono al 1709) e oggi rientra tra le normali attività di pesca. Uno scempio ammesso dalle autorità faroesi ma osteggiato dalla Commissione baleniera internazionale. Tuttavia la maggior parte dei faroesi considera importante catturare questi mammiferi poiché l’industria baleniera può dare respiro all’economia locale.

Uscendo dall’aeroporto si viene accolti da atmosfere bucoliche e si può passeggiare tra sentieri e villaggi lungo le rotte vichinghe. I diavoli del mare però non furono i primi colonizzatori: si ritiene infatti che a scoprirle fu un monaco irlandese, nel VI secolo d.C.. Le isole hanno costiere frastagliate come lamine di metallo battuto, modellate dai venti che non smettono mai di soffiare e che sferzano ininterrottamente le coste. Alcune di loro sono raggiungibili solo via elicottero, mentre Streymoy, Vagar ed Eystoruy – le tre isole più grandi dell’arcipelago – sono collegate da moderni tunnel sottomarini. Il periodo più indicato per visitarle è quello compreso tra la primavera e l’autunno; trattandosi di uno dei Paesi più piovosi al mondo, è meglio raggiungerle indossando un impermeabile e attrezzandosi con un ombrello. Grazie a questo clima umido, variabile e non eccessivamente freddo, le isole sono ricoperte da distese interminabili di prati e pascoli, abitate da circa da 49 mila persone e 87 mila pecore. Si dice che è meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora, ma alle Fær Øer questo detto sembra non valere. Da queste parti gli ovini sono considerati animali intelligenti: non soltanto belano ma indossano delle singolari telecamere. L’ente del turismo, stanco di aspettare da Google Street View la mappatura digitale delle isole, ha deciso di farlo autonomamente equipaggiando diverse pecore di videocamere. È nata così Sheep View 360°: una rete di georeferenziazioni e immagini.

Eppure visitare le Fær Øer è semplice. Per fare autostop non serve altro che agitare il pollice, qualcuno si fermerà senz’altro. Dopotutto si girano con estrema facilità: il traffico è ordinatissimo e gli unici stop, imprevisti e imprevedibili, sono quelli provocati dalle pecore quando attraversano le strade. I rari turisti che si avventurano fuori da Tórshavn, tra le più piccole capitali d’Europa, con meno di ventimila abitanti e con gli unici tre semafori dell’arcipelago, scopriranno un angolo di paradiso con prati verdissimi, tetti ricoperti d’erba, vallate profonde e lunghissimi fiordi. Un ambiente privo di evidenti segni di antropizzazione, dove ogni infrastruttura è realizzata nel modo meno invasivo possibile. D’altra parte i suoi abitanti sono i guardiani di questo mondo perduto, un luogo ricco di contraddizioni che malgrado l’isolamento sa sempre sorprendere e meravigliare. Allora non c’è da stupirsi se i faroesi amano alla follia il calcio e se a Tórshavn alcuni di loro mi fermano e mi ricordano che nel 2007, alle qualificazioni per gli Europei, la loro nazionale di dopolavoristi, perlopiù composta da pescatori e commercianti, rischiò di eliminare l’Italia, sfiorando pure il colpaccio del pareggio. Storie di uomini che hanno sfidato la natura per sopravvivere all’oscurità dell’inverno e si sono appassionati a un calcio genuino. Dopo tutto vivere a queste latitudini tra dicembre e gennaio con solo quattro ore e mezza di luce al giorno e in pochi mesi passare a giornate sempre più lunghe fino ad arrivare al sole di mezzanotte è un’emozione unica che ti prende il cuore.

Oggi le Fær Øer si stanno spopolando. Per questa ragione, in accordo col Ministero degli Esteri, è stato deciso di favorire l’immigrazione. Per porre rimedio alla fuga delle ragazze all’estero lo Stato ha anche agevolato i matrimoni dei suoi cittadini con donne thailandesi e filippine. Un boom.

Un viaggio “on the road”

A breve distanza dall’aeroporto di Vagar ci sono due scorci meravigliosi da fotografare: l’isola di Tindhólmur, una roccia che si erge sul mare come una scheggia di vetro, e l’incantevole cascata di Gasadalur che prende il nome del vicino paesello. Questo salto d’acqua che sgorga nel mare è uno dei panorami più conosciuti delle Fær Øer. Fino al 2006, anno di costruzione del tunnel che oggi collega Gasadalur al resto del mondo, esistevano solo due modi per raggiungere il villaggio: arrivare con una barca al promontorio e scalare la scogliera o valicare la ripida collina di Gasadalsbrekkan. Karl Mikkelsen, marinaio che per tre decenni ha navigato in lungo e in largo tra la Groenlandia e le Svalbard, racconta in un’intervista le peripezie che doveva affrontare tre volte alla settimana per consegnare la posta. A tal proposito ha dichiarato: «Dimenticate la galleria, quella è arrivata solo nel 2006. Prima di allora era come un secolo fa. Tre, quattro ore di cammino solo per salire sulla montagna che chiude la nostra vallata e scendere dall’altra parte fino a Sorvagur, prendere lettere, pacchi, ma anche frutta, farina, regali, e tornare indietro. A Natale era un incubo. Viaggiavo con uno zaino da 50 chili, trattenuto da una cinghia sulla fronte, e magari nevicava».

Con l’arrivo della strada la vita a Gasadalur è cambiata e oggi si sono aperte nuove possibilità. La donna più ricca delle Fær Øer ha costruito una casa di vacanza e Randy ha aperto un piccolo negozio. L’indomani con una barca raggiungiamo l’isola di Nolsoy, una striscia di terra che si trova di fronte alla capitale: un paradiso incontaminato, ex rifugio vichingo, pieno di colonie di uccelli e tante casupole colorate; decido di fare una camminata fino a raggiungere il faro. Percorriamo il lungo sentiero fino ad arrivare all’estremità opposta dell’isola dove abbiamo modo di osservare delle pulcinelle di mare (i puffins) nidificare sulle scogliere. Un tempo erano preda di cacciatori, ma oggi sono una specie protetta.

Nel tardo pomeriggio raggiungiamo l’isola di Streymoy e passeggiamo per il centro storico di Tórshavn, dove ha sede il governo. Il primo ministro faroese, Aksel V. Johannesen di professione avvocato, ha interrotto la tradizione dei premier provenienti dal terziario ittico. Diversamente, il suo predecessore Kaj Leo Johannesen ha una storia simile alla maggior parte della popolazione. A 14 anni inizia a lavorare sui pescherecci, gioca a calcio e si dedica alla pesca per tutta una vita.

Il giorno successivo approdiamo all’isola di Eysturoy e saliamo sul Slættaratindur, la cima più alta delle Fær Øer, con i suoi 882 metri nascosti dalla nebbia. L’entroterra faroese è spesso avvolto da cumuli di bruma. È questo il motivo per cui le case dei  villaggi hanno colori vivaci e si diversificano da quelle del vicino. Così sono sempre   visibili, anche quando scende la foschia.

D’un tratto sul mare s’intravedono le due celebri rocce chiamate “il Gigante e la Strega”. La leggenda racconta che, un tempo, in Islanda, vivevano un gigante e una strega che, invidiosi della bellezza delle Fær Øer, decisero di rubarle. Impresa che però doveva essere effettuata entro l’alba, altrimenti il sole li avrebbe trasformati in pietra. Così la sfida ebbe inizio.

La strega dopo aver legato le isole a una corda si arrampicò sulla montagna dell’Eiðiskollur e passò la gomena al gigante, ma quando questi iniziò a tirarla, la montagna si spaccò. Provarono e riprovarono tutta la notte finché non furono colpiti da un raggio di sole che li pietrificò. Da quel momento il gigante e la strega si trovano ai piedi della montagna e fissano l’Islanda.

Proseguiamo in auto su una strada a picco sul mare fino a raggiungere Gjógv. Questo grazioso villaggio, insignito dal Consiglio nordico del premio “Natura e ambiente”, ha una chiesa luterana del 1929 e incantevoli case colorate col tetto ricoperto di torba. Qua e là si notano delle hjallur, le tipiche casette per la conservazione delle carni. Passeggiando per le vie si respira un’atmosfera magica nonostante il paesello sia semi abbandonato. Nel 1950 ci abitavano 210 persone e al suo porto ormeggiavano 13 pescherecci. Ora sono rimasti in 28 e le poche imbarcazioni ancorate sono in secca.

Il giorno dopo arriviamo a Klaksvik, nell’isola di Borðoy. È dominato da una cupa montagna che si staglia all’uscita dal fiordo. A prima vista sembra un vivace villaggio di pescatori che si è sviluppato attorno al porto, eppure con 5.000 abitanti è la seconda città delle Fær Øer. È un luogo che custodisce le memorie dei marinai e i segreti di mastro birrai. Qui infatti si produce la Föroya Bjór, la birra più famosa del subartico, che si raccomanda di bere usando il  caratteristico corno di pecora. Un’esperienza da provare. Ma anche la musica è parte integrante della cultura locale e ogni anno viene organizzato il Summer Festival. La meta del pomeriggio è l’isola di Kalsoy che raggiungiamo in traghetto dal porto di Klasvik. L’isola non è molto grande ed è solcata da un’unica strada che impone l’attraversamento di cinque gallerie claustrofobiche. Ci fermiamo nel villaggio di Mikladalur, noto per alcune leggende. La più famosa è quella di Selkie la donna-foca. Nella tradizione orale nordica le Selkie sono delle foche che assumono le sembianze di donne meravigliose. Vivono in gruppo e spesso non si distinguono dalle normali foche. Queste figure, simili alle sirene, sono molto popolari e per questo motivo a Kalsoy, davanti all’oceano, è stata eretta una statua in bronzo con le loro sembianze.

Il giorno dopo raggiungiamo l’isola di Viðoy e proseguiamo all’estremità più settentrionale, sino a toccare il pittoresco villaggio di Viðareiði. Non dimenticheremo mai le sue montagne: il Malinsfjall (750 m) e il Villingardalsfjall (844 m). Tornando indietro verso Klaksvik, trepidiamo quando all’interno di una galleria a corsia unica e senza semaforo vediamo un’automobile venirci addosso. La fortuna ci sorride e ci aiuta a evitare una collisione quasi certa. La vacanza volge al termine ma abbiamo ancora il tempo di visitare il lago di Saksun e le magnifiche scogliere di Vestmanna.

Non ci resta che imbarcarci per l’Italia e pensare al prossimo viaggio.

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