Semplicemente Catine

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redazione

27 Settembre 2017
Reading Time: 9 minutes
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Caterina Tomasulo

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I suoi monologhi estrapolati dallo show 50 sfumature di friulano ancora oggi impazzano sul web, condivisi da magliaia di appassionati. Tutti stregati dall’umorismo mai banale di Caterina Tomasulo, in arte Catine, friulana di adozione dal 1994, quando sbarcò in regione dalla sua Basilicata in cerca di lavoro. Perché come il cabaret che offre agli spettatori, quella di Catine è una storia di emigrazione, contaminazione e integrazione. Una storia d’amore per la propria terra d’origine e di sincero riconoscimento per la terra che l’ha accolta. Una storia che in questa intervista Catine ripercorre a cuore aperto.

“Catine, cabarista friulucana”: quando tre parole dicono già tutto…

«Il primo a chiamarmi “cabarista” fu l’attore Claudio Moretti, quando facevo la barista di professione e la cabarettista per hobby. Sono lucana, ma dopo tanti anni passati in Friuli mi sento anche friulana, da qui il termine “friulucana”. Praticamente ho il mal d’Africa e il “màl dal modòn”, ma sto benissimo, in perfetta salute».

Il Friuli, i friulani e la lingua friulana: qual è il tuo rapporto con ciascuno di loro tre?

«È un rapporto d’amore. Un amore vero, genuino e reciproco. Come potrei non amare questa terra? Qui ho “combinato” tutto: ho trovato un lavoro, ho finito gli studi, ho “acceso un mutuo” e comprato una casa, ho perfino ritrovato la passione per il teatro, che credevo ormai morta e sepolta da tanti anni, e “tal ùltin” (in ultimo), come si dice in friulano, quando ormai ero presidentessa emerita del V.V.F. (Veres Vedrane Furlanes), ho trovato anche l’amore. Adesso comprendo appieno il senso del “cumbinìn”, una delle parole che svelano lo spirito del popolo friulano e il suo modo di intendere la vita. Il Friuli, i friulani e la lingua friulana sono come la Santissima Trinità, si amano tutti assieme».

Le cronache raccontano di una giovane ragazza partita da Sant’Ilario di Potenza e giunta in provincia di Udine 23 anni fa, in cerca di lavoro. Che ricordi hai di quel periodo?

«Dal giallo della Basilicata al verde del Friuli nello spazio di una notte. A mille chilometri da casa mia. Avevo solo una piccola valigia, pochi soldi e tanta nostalgia… Ma avevo un’amica qui in Friuli, Margherita Menon di Gonars, conosciuta durante una stagione a Bibione e con la quale ero rimasta in stretto contatto. Senza farmi mai pesare niente Rita mi ha dato supporto morale e materiale ospitandomi a casa sua, aiutandomi a cercare un lavoro, a comprare una macchina che mi permettesse di rendermi indipendente, la famosa 126 color “budjese” (bugesa). Le sarò grata per tutta la vita. Quel periodo occupa una parte importantissima nella mia vita e mi fa pensare a una parola: amicizia. Puoi avere tutte le ricchezze che vuoi, ma se non hai un amico vero non sei niente»

Il primo lavoro arrivò in un ristorante.

«Come cameriera di sala. Prima alla Taverna di Colloredo di Montalbano, dove oltre al mestiere ho imparato anche i primi rudimenti del friulano; poi all’Osteria di Villafredda a Loneriacco e infine al Gjal Blanc di Segnacco, dove tra l’altro ho conosciuto i componenti della compagnia teatrale locale “La Gote”, che poi ha avuto un ruolo determinante nella mia storia. Quando ho ritenuto di avere sufficiente esperienza ho deciso di tentare l’avventura della gestione del bar Marinelli, a Tarcento: quella è stata la mia università. Le superiori le ho fatte in ristorante, l’università al bar. E siccome il bar lo gestivo, ritengo di avere anche un master. Un “percorso didattico” che non cambierei neanche col college più prestigioso del pianeta».

L’incontro con la recitazione quando e come avvenne?

«La recitazione mi apparteneva fin da bambina, quando all’asilo e poi alle elementari ero la mattatrice di tutte le recite. Con i miei riccioli biondi e gli occhi azzurri sembravo l’ape maia, zompettavo da un ruolo all’altro senza nessuna difficoltà. Poi arrivò l’adolescenza e tra le tante problematiche mi portò anche una timidezza quasi patologica: non riuscivo a parlare di fronte a 20 coetanei brufolosi, figurarsi su un palcoscenico! E così quella passione finì nel dimenticatoio. Poi un giorno Giovanni Mariotti, alias “il Nini”, regista de “La Gote” mi invitò a leggere un copione che secondo lui era fatto su misura per me. Era il ruolo di una “vedrane”, la siore Cheche, monologo di Giuseppe Marioni. Da questo personaggio è partito tutto. Non sono riuscita più a fermarmi…»

Il passaggio al cabaret come si sviluppò?

«Dato che la gestione del bar mi impegnava moltissimo, all’interno della compagnia mi specializzai in monologhi, che potevo studiare senza dover essere presente alle prove. Durante le commedie della compagnia alternavamo così i miei monologhi, e già quella era una forma di cabaret. Ma il passaggio decisivo avvenne nel 2012, con la partecipazione al Festival di cabaret di Attimis, una sorta di Zelig made in Friuli capitanato da Claudio Moretti, uno dei “mostri sacri” del teatro friulano. Lì ho conosciuto altri cabarettisti, anche veneti e triestini. E da lì sono partite diverse collaborazioni».

E da lì è nata anche la scelta di incentrare i tuoi testi e le tue esibizioni sulla parodia della lingua friulana ascoltata da una meridionale…

«È venuto tutto da sé. Il mio teatro viaggia su due binari: uno è in lingua friulana e parla di personaggi femminili alle prese coi problemi della vita; l’altro è in italiano e parla della mia esperienza di emigrante, delle differenze riscontrate in questa terra così lontana dalla mia, differenze che vanno dal modo di intendere il lavoro ai nomi delle persone, ai nomi dei paesi e naturalmente al linguaggio. Erano impressioni messe giù con l’intento di far ridere e riflettere, ma c’è stato qualcosa in più. È stato come aprire uno stargate. I friulani hanno visto la loro lingua “dal di fuori” e questo ha provocato sorpresa e divertimento. Spingendomi a continuare».

Ancora oggi prosegui lo studio del friulano: è una lingua difficile da imparare?

«Mi ha aiutato molto il mio “orecchio bionico” e soprattutto il mio lavoro a continuo contatto con la gente: quello che ti insegna il popolo nessuna scuola lo insegna… Non è una lingua facile da imparare, è piena di insidie, di “trappole” linguistiche, ma è proprio questo che la rende così intrigante, così bella e divertente. Io ho accettato la sfida di impararla e mi sono ritrovata in mano un tesoro. Le sue mille sfaccettature mi daranno lavoro ancora per un bel po’, “a Dio piacendo”».

Una lucana che impara il friulano appare agli antipodi rispetto ai giovani friulani che sempre meno parlano la “marilenghe”. A tuo avviso come mai questa ritrosia?

«Non è un fenomeno solo friulano: tutte le lingue e i dialetti, compresa la stessa lingua italiana, rischiano di scomparire nel calderone del “linguaggio globalizzato”, un misto di inglese, italiano storpiato e faccine. Io amo le lingue e i dialetti perché danno l’identità a un popolo, ne raccontano la storia e ne sottolineano le diversità. Perderli sarebbe come perdere le proprie radici. Però io ho notato che da qualche anno in Friuli è in atto una controtendenza, un “ritorno di fiamma”; sono sempre più numerose le iniziative per promuovere la “marilenghe”: corsi di friulano, trasmissioni per bambini in lingua friulana, migliaia di “Sei friulano se…” Tra i giovani spopolano “Felici ma furlans” e “Tacòns”, DJ Tubet e Doro Gjàt e anche nei miei spettacoli vedo sempre più giovani che si divertono come matti. Forse facendoli ridere e ballare facciamo venir loro voglia di impararla, questa lingua fantastica».

Si parla sempre del tuo rapporto con il Friuli, qual è invece quello con la tua terra d’origine?

«La Basilicata è la mia terra, lì ci sono le mie radici, la mia famiglia, c’è Sant’Ilario, il paesino in cui ho vissuto un’infanzia contadina bellissima, in mezzo ai prati e ai campi di grano. Ci vado almeno una volta all’anno, per respirare un po’ di Sud e anche per mantenere il “traffico agroalimentare” che ho messo in piedi da quando sono qui: vado giù con grappa, frico e gubane e torno con origano, olio e scamorze».

In Basilicata sanno che una loro corregionale è diventata famosa imparando il friulano?

«Attraverso il web oggi si sa tutto, ma non tutti sono “social”. Spesso fermano mia madre per strada: “Ma è vero che tua figlia…?” Comunque, stando a quello che mi scrivono, sono tutti orgogliosi di me».

Torniamo al tuo cabaret: secondo te perché piace così tanto proprio alla gente friulana?

«Perché gli fa vedere la lingua da un punto di vista differente. Chi vive in una grande e bella foresta, proprio essendo dentro non può vedere com’è da fuori, non può vederne l’immensità. A meno che non arrivi una “foresta”, magari dalla Basilicata, a raccontargli quanto è bella vista da fuori. Mi piace usare la metafora della foresta perché “foresta” in friulano vuol dire “forestiera”. Facendo così scoprire come una lingua che lo stereotipo vuole “ostica” e difficile sia in realtà una lingua colorata e gioiosa, con la quale si può giocare e divertirsi; un divertimento sano, a km zero, preso dalla vita di ogni giorno. E in questo momento si sente tanto il bisogno di ridere».

A proposito di cabaret e recitazione in friulano, nel tempo hai sviluppato un rapporto professionale con Claudio Moretti e altri artisti made in Friuli. Come giudichi queste collaborazioni?

«Oltre che con Claudio Moretti ho collaborato con Alessandro Di Pauli e Tommaso Pecile in “Felici ma furlans” e “Tacòns”, e anche con Tiziano Cossettini e Pauli Nauli, componenti della Compagnia di Ragogna, dando vita al trio cabarettistico PaToCos. Ultimamente ho avuto l’onore di lavorare con i Trigeminus. C’è fermento culturale in Friuli e per me queste collaborazioni sono state e sono tuttora una bella palestra. Ognuno con la sua forma d’arte, ma tutti accomunati dall’amore per il Friuli».

Questi ultimi mesi ti hanno vista impegnata in numerose esibizioni in tutto il territorio: qual è il segreto per non inflazionarsi?

«Per non inflazionarsi bisogna sapersi ritirare al momento giusto, e cioè prima di “stufare”. Per me questo è stato un anno intenso, ho girato il Friuli in lungo e in largo, ma in autunno rallenterò. Ho bisogno di crearmi degli spazi per poter studiare cose nuove e mettere in atto tutte le idee che mi frullano in testa».

Intanto la tua bravura è stata apprezzata anche dal mondo cinematografico, come dimostra il debutto nel film La donna di picche. Che esperienza è stata per te?

«Nel film di Renzo Sovran ho girato una scena di due minuti, il cosiddetto “cameo”, e mi sono divertita tantissimo, in compagnia di persone brave, preparate e alla mano, gente che fa le cose col cuore. Sono molto curiosa di vedere questo film».

Cinema, teatro, cabaret: Caterina Tomasulo cosa vede nel proprio futuro?

«La vita mi ha messa in situazioni diverse proprio perché potessi vedere le cose da più punti di vista e raccontarle. Ecco cosa voglio fare: raccontare. Raccontare le cose belle, positive, trovandone il lato divertente, perché c’è, esiste, solo che si preferisce dar risalto alle cose tragiche. E invece il mondo è pieno di piccole realtà bellissime, e sono vicino a noi, basta guardarsi un po’ intorno. Io voglio regalare alle persone momenti positivi, farle star bene, anche se per poco. È una cosa che fa star bene anche me, quindi continuerò a farlo in qualsiasi forma. Con un occhio alla qualità, sempre».

Il friulano continuerà a ricoprire un ruolo preponderante nel repertorio di Catine?

«Ce, po! Non ho ancora finito di esplorare questa lingua, sono solo all’inizio. Il prossimo passo sarà metterla a confronto col mio dialetto. Ne vedremo delle belle. Vorrei far conoscere al resto dell’Italia queste due splendide regioni di cui si parla così poco: il Friuli e la Basilicata».

C’è un messaggio particolare che desideri rivolgere alla gente friulana?

«Il messaggio che vorrei arrivasse un po’ a tutti è che l’integrazione è possibile, essere diversi è bello e che con la giusta dose di umorismo e ironia anche un episodio doloroso come l’emigrazione si può trasformare in una grande avventura. Alla gente friulana, che non ha bisogno di tante parole, dico solo questo: Catine ringrazia e non dimentica. A buon intenditor…»

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