Settebello e Primiera

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Michele D'Urso

4 Gennaio 2016
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Luca Clapiz

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La ‘Scopa’, il gioco di carte e non l’attrezzo domestico, è uno dei passatempo più diffusi in Italia. In passato non c’era osteria che si rispetti che non avesse il mazzo di carte da usare per una rinfrancante partita accompagnata da un buon bicchiere di vino. E mi ha sempre fatto sorridere che la nostra Nazionale di pallanuoto, uno degli sport più faticosi in assoluto, internazionalmente definito ‘Waterpolo’, venga affettuosamente chiamata ‘Settebello’ e quindi, in qualche modo, paragonata alla fatica di stare seduti su una sedia.

Luca Clapiz, goriziano attorno al mezzo secolo, è uno di questi ‘figli di Nettuno’ quali sono i pallanuotisti italiani. «È uno sport – confida – molto faticoso e ricco di agonismo; di sicuro nulla di paragonabile né a una rilassante nuotata e tantomeno a una partita a carte. Il soprannome ‘Settebello’ con il quale è indicata la Nazionale italiana trae origine dal fatto che durante le lunghe trasferte in treno dei tempi andati si giocava spesso a carte. La leggenda narra che il famoso cronista Nicolò Carosio chiese a Gildo Arena, uno dei campioni che vinsero l’Olimpiade del 1948, come poter definire la squadra italiana e Arena rispose: “Ci chiami Settebello!”».

Come si diventa pallanuotisti?

«Si comincia con la scuola di nuoto. Poi ti accorgi che non sei fatto per fare corse contro il tempo e che trovi divertente inseguire palla e avversario lungo tutta la piscina. È una questione di… godimento personale».

Questa ‘iniziazione’ per lei è avvenuta quando?

«Da bambino, a metà degli anni Settanta, e non ho ancora smesso; almeno non del tutto, perché fra problemi societari, impegni familiari e il lavoro, è sempre più difficile allenarsi e formare una squadra».

Lei ha all’attivo oltre trent’anni nel settore: può essere considerato una ‘memoria storica’…

«Effettivamente agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, periodo che coincideva con la maturità agonistica della mia generazione, la Pallanuoto italiana, sotto la guida del leggendario Ratko Rudi , ebbe il suo momento d’oro con le vittorie di Olimpiadi e Mondiali e quant’altro si potesse vincere».

Perciò anche lei subì il fascino del ‘Settebello’?

«E chi non avrebbe voluto fare il tuffo in piscina con Rudi dopo la vittoria alle Olimpiadi di Barcellona del 1992? Inevitabile che ci fosse un forte motivo di emulazione nei confronti dei nostri campioni, ma era sempre e solo la passione a supportarci, perché passate le vittorie del Grande Slam, la pallanuoto italiana ha avuto quasi un ventennio di oblio da parte dei media. Solo i recenti successi ai Mondiali hanno risvegliato l’interesse attorno al ‘Settebello’; ma si sa, i media sono sempre pronti a dimenticare in fretta i meriti degli sport minori».

In Italia, grazie a bacini di interesse locali, esistono squadre famose come la Pro Recco, da dieci anni consecutivi Campione d’Italia, che hanno oltre a una tradizione ormai secolare, anche consistenti fondi. Gorizia invece è una vera e propria ‘Cenerentola’…

«Qui la pallanuoto è uno sport ancor più sconosciuto che altrove, e non possiamo certo vantare tradizioni storiche come a Genova o a Napoli; però noi ce l’abbiamo messa tutta sempre. I recenti successi della pallanuoto triestina hanno risvegliato un poco l’interesse regionale intorno a questo nostro sport. Ai tempi della Pallanuoto Gorizia non è che fossimo da buttar via, però abbiamo sempre militato in serie minori proprio per la mancanza di fondi adeguati, e alla fine, anche tra gli atleti davvero forti, c’è chi ha scelto di fare il medico piuttosto che il giocatore, magari professionista, ma affamato».

Difatti oggi la Pallanuoto Gorizia non esiste più.

«La società Gorizia Nuoto esiste ancora, semplicemente non c’è più la sezione Pallanuoto. Troppi pochi praticanti; e alla fine, abbattendo i muri dei confini, siamo andati a giocare con la Waterpolo di Nova Gorica».

Un bell’esempio di collaborazione transfrontaliera.

«Noi, la mia squadra, ci divertiamo molto a giocare. Come detto è un piacere al quale non sappiamo ancora rinunciare. Ma ci sono anche altre squadre italiane che, magari per allenamento, si sono iscritte alla Alpe Adria Waterpolo League e vengono a giocare in Slovenia o in Croazia».

Lei che tipo di giocatore era?

«Salvo rare eccezioni, ho sempre avuto sulla cuffia il numero due, perché il mio giocatore preferito portava questo numero e anche perché, di solito, è il numero che contraddistingue il difensore destro, che deve essere preferibilmente mancino».

Mi sono perso…

«Come in tutti gli sport, anche la pallanuoto ha le sue peculiarità; se stai sulla parte destra dello schieramento, rispetto alla direzione di attacco della tua squadra, il braccio sinistro può inquadrare meglio lo specchio della porta e passare la palla all’altro versante. A eccezione del portiere, tutti i giocatori possono tenere la palla con una mano sola: essere mancini o destri, rispetto alla posizione rivestita, fa la differenza. Proprio per il fatto di esser mancino, ero chiamato a tirare i rigori; il mancino disorienta il portiere abituato a subire rigori tirati da destrimani».

Interessante geometria sportiva.

«Senza parlare di tutte le regole legate ai falli, all’uomo in più, al controllo delle unghie».

Cosa c’entra il maquillage?

«Le unghie lunghe sono pericolosissime. In una concitata fase di gioco è facilissimo toccare l’avversario e se le unghie non sono ben rasate è probabile procurare ferite. Prima della partita gli arbitri procedono a un controllo accuratissimo».

Quante particolarità…

«Senza scordare che come sport il waterpolo è nato nella fredda Scozia e non in un paese tropicale: le prime partite furono giocate dai galeotti che erano portati al fiume per lavarsi».

Quanta storia sconosciuta e affascinante dietro agli sport minori. Se solo la smettessi di giocare a carte e imparassi a nuotare!

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