Il frutto dorato

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L’origine del pomodoro

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Fino a qualche decennio fa in primavera aveva inizio, secondo l’armonico divenire dei cicli della natura, la lunga stagione del pomodoro, un prodotto della terra visto inizialmente in Europa con una certa diffidenza.

Quell’armonico divenire non è più tale, poiché bypassato dalla ricerca e dalla sperimentazione che, molto attente alla logica globalizzante dei mercati, hanno consentito la produzione e il consumo alimentare del ‘frutto dorato’ ovunque e praticamente tutto l’anno. Il pomodoro è una coltura orticola dell’America centromeridionale (Cile, Ecuador, Messico, Perù), coltivata in quegli ambiti ben prima della scoperta del Nuovo Mondo, attualmente diffusa a livello mondiale anche nelle regioni geografiche a clima temperato.

Il termine, che individua pianta e frutto, è una parola composta, formata da tre parti che il parlare corrente ha riunito in una – pomodoro, appunto – con abbandono delle forme ‘pomidoro-pomidori’ in uso tra i vecchi botanici. La pianta è una coltura erbacea annuale appartenente alle ‘Solanaceae’, classificata inizialmente dallo svedese Carl von Linné (Carlo Linneo) come Solanum lycopersicum (1753), poi come Lycopersicon esculentum dallo scozzese Philip Miller (1768), quindi come Lycopersicon lycopersicum dal tedesco Hermann Karsten (1881), per tornare ora alla formulazione linneana di Solanum lycopersicum (lycopersicum è termine greco con significato di pesca dei lupi).

Il frutto è chiamato tomate in spagnolo, francese e tedesco; tomato in inglese; pomodeoro in bisiaco; tomat in friulano. La parola ‘tomato’ deriva dall’azteco xitomatl, usata dalle genti messicane precolombiane per indicare taluni frutti ricchi di succo: a quelle popolazioni si deve la nascita della tradizione culinaria della ‘salsa’.

Al pomodoro furono attribuiti in passato effetti afrodisiaci, da cui alcune definizioni ridondanti: ‘pomme d’amour’ in Francia, ‘apples of love’ in Inghilterra, ‘liebesapfel’ in Germania, ‘pùma d’amùri (pomo dell’amore)’ in Sicilia. Gli addetti ai lavori italiani, invece, lo hanno chiamato in vario modo: purpurea meraviglia, re dell’orto, simbolo dell’estate, campione della cucina mediterranea.

La pianta, coltivata all’aperto, nei climi tropicali produce tutto l’anno, mentre in quelli temperati fruttifica solo nella stagione tardo primaverile-estiva, oppure in serra nel periodo invernale con opportuni accorgimenti. frutti hanno forma, dimensione, colore e tempi di maturazione a seconda della varietà (oltre 1.700, ma solo una sessantina utilizzate per il mercato) e sono dotati di polpa ricca di sali minerali, proteine e vitamine (A, B1, B2, C, K, P, PP). Possono essere raggruppati in quattro grandi categorie: da tavola, per conserve, per pelati, per salamoia o conservazione al naturale, cioè da ‘serbo’. In quanto alla forma e dimensione, i pomodori possono essere lunghi, rotondi e grossi, a mo’ di ciliegia riuniti in grappoli e anche piuttosto cavi all’interno, ovvero da riempire. Relativamente al colore, oltre alle varietà di rosso destinate diffusamente al consumo, esistono cultivar di colore bianco, giallo, verde, rosa, arancio ne (molto raro) e marrone-verde scuro (‘nero di Crimea’).

Le parti verdi della pianta (fusto, ramificazioni, foglie) sono tossiche, perché contengono ‘solanina’, un alcaloide glicosidico presente in talune Solanaceae, eliminabile solo con la cottura a temperature piuttosto elevate. I semi di pomodoro vennero portati in Europa nel 1540 dal condottiero spagnolo Hernán Cortés, conquistatore del Messico e distruttore dell’Impero Azteco (1485-1547), resi produttivi in via sperimentale dal medico e botanico spagnolo Nicolàs Bautista Monardes Alfaro (1493-1588), primo scienziato a occuparsi delle piante ‘medicinali’ provenienti dalle Americhe, il quale contribuì a dipanare diffidenze e pregiudizi diffusi sul nuovo singolare ortaggio, perorandone l’utilizzo a scopo farmacologico e gastronomico.

Inizialmente, la pianta di pomodoro fu considerata un’essenza velenosa perché accostata alla ‘erba morella’ (Solanum nigrum), un’infestante presente nei raccolti della mietitura, per cui venne destinata a impieghi ornamentali alla stregua della patata, anch’essa proveniente dal Nuovo Mondo.

Nel 1544 il medico ed erborista senese Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), mentre stava operando professionalmente a Gorizia (1541-1555), la catalogò tra le specie velenose, pur ammettendo che in alcune zone italiane il frutto era consumato a tavola, fritto in olio. Nel 1548 il pomodoro fu introdotto, come ornamento di case e giardini patrizi, alla corte del Duca di Firenze e Granduca di Toscana Cosimo I de Medici (1519-1574), tramite il suocero Don Pedro Alvarez de Toledo, viceré spagnolo di Napoli.

Verso la fine del Settecento la coltivazione prese avvio a scopo alimentare nei paesi mediterranei, particolarmente in Francia quale pietanza delle classi abbienti, e nell’Italia meridionale, nel napoletano come cibo del popolo, a somiglianza di taluni prodotti (‘spezie’) giunti d’oltreoceano.

Ma fu dalla metà dell’Ottocento che essa si diffuse nella nostra Penisola come coltura orticola e a tutto campo, soprattutto in Emilia-Romagna, Puglia, Campania, Calabria e Sicilia, seguita dall’attività di trasformazione e conservazione industriale. Quest’ultima deve il proprio sviluppo alle sperimentazioni e applicazioni nel trentennio 1865-1895 del prof. Carlo Rognoni (1829-1904), agronomo e chimico, docente presso il Regio Istituto Tecnico di Parma, ai Laboratori (imprese) parmensi di fine Ottocento di lavorazione del prodotto e all’intraprendenza dell’imprenditore di Nizza Monferrato (Asti) Francesco Cirio (1836-1900), che nel 1856 fece costruire a Torino il primo stabilimento conserviero, cui seguirono nei decenni successivi diversi altri impianti nel Mezzogiorno (Castellamare di Stabia, San Giovanni a Teduccio) e in Europa (Berlino, Bruxelles, Londra, Parigi, Vienna).

Oggi, i maggiori produttori ed esportatori di pomodoro a livello mondiale sono nell’ordine Stati Uniti, Russia, Italia, Cina e Turchia; in ambito europeo lo è l’Italia (6 milioni ton./anno), cui è stato riconosciuto un ruolo fondamentale nel processo di ‘pomodorizzazione’. La trasformazione industriale si articola su almeno sei prodotti: i pelati, la passata, la polpa, il concentrato, il succo di pomodoro e il ‘ketchup’, ovvero ‘kezap’ termine diffuso a Canton (Cina) con significato di salsa.

Nella Contea Principesca di Gorizia e Gradisca la coltivazione del pomodoro venne introdotta piuttosto tardi, sicuramente dopo la seconda metà dell’Ottocento. Infatti, di essa non si trova menzione negli ‘elaborati d’estimo’ e neanche nei ‘questionari’ (domanda-risposta), redatti dalle pertinenti Commissioni censuarie provinciali del tempo. Non ne parla nemmeno il botanico e naturalista di Ronchi, abate Leonardo Brumati, nel lavoro del 1844 intitolato Flora Medico-economica del Territorio di Monfalcone. Ne fa, invece, un cenno il barone Carlo von Czoernig nell’opera del 1873 Gorizia, la Nizza Austriaca. Va comunque ricordato che un’efficace azione divulgativa sulla coltura del pomodoro, sulle sue peculiarità alimentari ed economiche venne esercitata dalla benemerita I.R. Società Agraria di Gorizia. Esiste, poi, per i buongustai tradizionalisti, a ricordo di un’epoca ormai scomparsa, la ‘zuppa asburgica di pomodori’: la Tomatencremesuppe, una minestra estiva di crema di pomodori da gustare tiepida, oppure fredda, assieme ad alcune fette di pane.

In chiusura. Molti si chiedono se i pomodori sono ‘frutta‘ o ‘verdura’. La risposta è duplice: questo e quella. Infatti: botanicamente essi sono considerati frutti di una pianta da fiore; dal punto di vista culinario, invece, sono verdure, anche per il loro basso contenuto di zuccheri rispetto alla frutta tradizionale. Tale doppia collocazione, che li qualifica pure come ‘frutto ambiguo’, ha portato addirittura nel 1893 a un pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti a favore del pomodoro quale ‘frutto’. Circa un secolo dopo, sul dilemma ‘frutto o verdura’ ha tagliato corto il giornalista inglese Miles Beresford Kington (1941-2008) con un’arguta riflessione: “La conoscenza è sapere che un pomodoro è un frutto, la saggezza sta nel non metterlo in una macedonia”.

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