In ricordo di Marco, Sasha, Dario e Miran

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redazione

22 Aprile 2013
Reading Time: 6 minutes

Fondazione Luchetta

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Mostar Ovest, Bosnia, 28 gennaio 1994. L’inviato della RAI Marco Luchetta, assieme all’operatore Alessandro Ota e al tecnico Dario D’Angelo, sta raccogliendo testimonianze e immagini all’interno dell’ospedale. Il loro compito è quello di realizzare un documentario sui ‘bambini senza nome’, nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi nella mattanza in corso nei Balcani.

Tramite l’Onu, quella mattina Marco ha la possibilità di recarsi nella parte est della città, per visitare il quartiere musulmano dove, negli scantinati, altri bimbi vivono rinchiusi sotto il quotidiano bombardamento dell’artiglieria croata. È un’occasione rara per testimoniare l’atrocità del conflitto e per dare voce a vittime innocenti abbandonate dal mondo. Prendere o lasciare.

Marco e i suoi colleghi prendono.

Il seguito ha riempito a lungo le cronache dei giornali dei giorni successivi. Lo scoppio mortale della granata croata e i loro corpi che fecero da scudo a un bimbo di 4 anni di nome Zlatko, salvandogli la vita.

La storia della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin (in onore anche del cineoperatore triestino Miran Hrovatin ucciso il 20 marzo dello stesso anno a Mogadiscio, in Somalia, assieme alla giornalista Ilaria Alpi) inizia proprio da qui. Da quel bimbo salvato.

«In quei giorni – ricorda Daniela Luchetta, moglie di Marco e insegnante di scuola media – ci siamo trovati gli occhi del mondo addosso perché era la prima volta che dei giornalisti RAI restavano uccisi in un conflitto. Fino ad allora nessuno credeva realmente che un fatto simile potesse accadere. Lo shock fu grande per tutti, ma al tempo stesso tantissima gente si strinse attorno alle nostre famiglie: il loro calore e la loro vicinanza mi trasmisero una forza straordinaria».

Fu in quei momenti che nacque l’idea della Fondazione?

«Ci trovammo assieme ad altri amici di Marco, Sasha e Dario, con la convinzione che il tutto non poteva finire così. Venuti a sapere di Zlatko e ricordando l’amore che Marco nutriva verso i bambini, decidemmo di costituire un comitato per portarlo in salvo in Italia. Anche se non fu facile».

In che senso?

«All’epoca i bosniaci temevano la pulizia etnica e non volevano che il bambino se ne andasse da là. Alla fi ne riuscimmo a convincerli e nel luglio dello stesso anno Zlatko arrivò a Trieste».

Cosa ricorda di quel periodo?

«Temevo che i miei figli (Carolina e Andrea, all’epoca rispettivamente di 10 e 8 anni, ndr) potessero non accettarlo dicendo “Papà è morto e tu sei qui”, invece ogni volta che uscivano volevano sempre prendere qualche regalo per Zlatko. Fu un periodo molto bello».

Assieme a Zlatko arrivò anche la mamma.

«Nel ’94 aveva 26 anni. Appena arrivata, mi confidò la sua angoscia perché temeva che io volessi suo figlio. Provai tanta pena, pensando a quanta disperazione dovesse avere. Il marito era stato espulso dalla Bosnia e si era rifugiato in Svezia: riuscimmo a rintracciarlo e a far riunire la famiglia che ancora oggi vive in Scandinavia. Ora Zlatko è grande, ma si sente spesso con i miei fi gli».

Il comitato sorto per portarlo in Italia, invece, come si evolse?

«Avviammo una collaborazione con l’ospedale infantile Burlo Garofolo di Trieste, progettando la realizzazione di un centro di prima accoglienza per bambini e loro familiari, vittime delle atrocità di una guerra che si combatteva a pochi chilometri dal nostro Paese. La Provincia di Trieste ci mise a disposizione l’edificio di via Valussi che ristrutturammo grazie al contributo economico della Regione e che ora è la nostra sede ufficiale. Nel frattempo il comitato si trasformò in Fondazione».

Aprendosi ai bimbi vittime non solo della guerra nell’ex Yugoslavia…

«La missione della Fondazione è quella di accogliere bambini che non possono curarsi nei loro Paesi d’origine. Li accogliamo sempre assieme ai familiari perché nel percorso di cure questi piccoli hanno bisogno del supporto psicologico di un loro caro. In tutti questi anni le persone accolte dalla Fondazione sono state 780, di cui circa la metà bambini che hanno intrapreso un percorso terapeutico».

Un successo che ha richiesto nuovi spazi.

«Dal 2005 abbiamo attivato anche una seconda struttura, di nostra proprietà, in via Rossetti. Nei due punti di accoglienza, attualmente pieni, possiamo ospitare complessivamente una ventina di famiglie».

Come giudica il rapporto della Fondazione con la città di Trieste?

«Da qualche tempo abbiamo stipulato un accordo con il Comune per seguire anche famiglie locali, con bambini, in situazioni di disagio: il nostro impegno è quello di assisterle e aiutarle a reinserirsi nel tessuto sociale».

Il rapporto con il Burlo Garofolo è sempre saldo?

«All’inizio la Fondazione era nata come costola del Burlo, ma col tempo il rapporto si è via via diversificato. Con la mia presidenza desidero riportare tutto sotto l’orbita del Burlo: il direttore generale e i pediatri che vi lavorano hanno nei nostri confronti una disponibilità commovente».

Quante persone collaborano nell’attività della Fondazione?

«Possiamo fare affidamento su una segretaria assunta che coordina il preziosissimo lavoro di decine di volontari che si mettono a disposizione per trasportare, con i nostri mezzi, i bambini al Burlo per le cure. Altri volontari, poi, si mettono a disposizione per gli aiuti più disparati: insegnare italiano ai bambini, accompagnarli in qualche uscita, allestire il banco farmaceutico, allestire il nostro stand nelle manifestazioni cittadine: una rete di persone straordinarie, senza le quali sarebbe impossibile operare».

Oltre a quello della Fondazione, i nomi di suo marito e degli altri colleghi sono associati a un prestigioso premio giornalistico: come mai?

«Fu un’idea che Giovanni Marzini (caporedattore del TGR del Friuli Venezia Giulia, ndr) ebbe nel 2004: a dieci anni dal dramma di Mostar desiderava ricordare Marco e i suoi colleghi a livello professionale. Nacque così il premio giornalistico che nel tempo è divenuto di caratura internazionale».

A proposito di professionalità: cosa significava per Marco Luchetta essere inviato di guerra?

«Credo che per lui significasse raccontare la realtà e riportare la verità delle persone, al di là delle versioni ‘ufficiali’. C’è un episodio più esplicativo di ogni parola; una volta, prima che partisse per uno dei suoi viaggi nei Balcani, gli chiesi: “Marco, tu indossi il giubbotto antiproiettile?”».

Lui cosa rispose?

«Disse: “Quando sono là, attorno a me passano persone con cappottini lisi di 2 anni di guerra, mentre io sono bardato con casco e giubbotto antiproiettile. E mi vergogno”».

Marco cosa le raccontava di quella guerra?

«Era impressionato. La sua famiglia era originaria della Dalmazia e lui sentiva quelle terre come sue. Era annichilito da quella violenza e dalle contrapposizioni etniche. Vide scene che lo turbarono profondamente, eppure ogni volta che tornava a casa si metteva subito a preparare il viaggio successivo. Quella guerra faceva parte di lui».

Lei è mai stata a Mostar?

«Si, dopo il confl itto. E lì ho capito molte cose sulle scelte di Marco. Ho pensato a come mi sarei sentita se fossi stata isolata sotto i bombardamenti e un giornalista fosse venuto a rompere il silenzio che mi circondava. Gli avrei detto “Grazie”».

Suo figlio Andrea è da poco diventato giornalista professionista; sua fi glia Carolina lavora a Firenze in favore dei rifugiati politici. Se un giorno uno di loro le dicesse che vorrebbe andare a prestare il suo servizio in teatri di guerra, cosa risponderebbe?

«Ognuno di noi segue le strade che ha dentro di sé. Non mi sognerei mai di condizionarli: ciò che desidero per loro è che possano essere persone felici di se stesse».

Per se stessa e per la Fondazione che presiede, invece, cosa desidera Daniela Luchetta?

«Ora che i miei fi gli sono grandi posso dedicare gran parte delle mie energie alla Fondazione. Con l’obiettivo però che essa non debba dipendere dalle persone che l’hanno fondata, ma che possa perpetuarsi nel tempo, divenendo istituzione. Anche per questo desidero rinsaldare i rapporti con il Burlo».

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