Historia magistra vitae? Magari! Per fortuna, possiamo affidarci alla stessa fonte, Cicerone, pensatore e uomo politico. Magistra vitae non fu neanche per lui: fece una brutta fine, dopo una carriera, politicamente variabile, densa di opere superbe e di cariche politiche.
La definizione regge; intera, è: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis «la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità». Allora sì, nell’insieme, diventa accettabile: di per sé stessa, la storia insegna a vedere l’uomo ripetere spesso errori simili, ma anche capace di risollevarsi, come i giunchi di un fiume, dopo ogni piena. Dunque, il messaggio è che bisogna conoscerla. Non tutti diventeranno degli storici, ma, per conoscerla, ci si deve porre innanzi con mente aperta, capacità critica, spassionata capacità di verificare ipotesi e non dimostrare tesi, altrimenti ci si trova nella propaganda.
Il nazismo fu tutto il contrario: incrollabili certezze e due parole chiave, sangue e razza.
La giornata della memoria è nata con una legge: ricorda la liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945. Legge del 2000 (anteriore ad analoga risoluzione dell’ONU - 2005), che invita a ricordare l’olocausto e, per noi, anche la morte dei soldati e civili italiani nei campi nazisti. Si parla soprattutto per i giovani: se un adulto finora non ha capito il problema, è difficile che lo risolva.
Cliccando sul computer, si trova una valanga di notizie, di immagini, filmati, talmente raccapriccianti che a volte sono difficilmente sopportabili. Ho la fortuna di conoscere il prof. Boris Pahor, che veleggia verso i 108 anni, e ogni tanto mi fa l’onore di ricevere me e miei amici (ho portato anche dei ragazzi). Lui i campi nazisti li conosce a menadito: ne ha frequentati molti salvandosi per miracolo. Tradito da collaborazionisti (di fascisti e nazisti) sloveni, è stato soprattutto a Dora-Mittelbau. Conversare con lui è un viaggiare stupendo nella storia e nella filosofia europea dell’800 e del ’900.
Durante l’incontro più recente, ci ha parlato un paio d’ore. Lui era un triangolo rosso (li marchiavano - i prigionieri - i seguaci di Hitler; tutto organizzato), un prigioniero politico, poi lo sapete, c’erano gli Ebrei, gli Zingari e i Nacht und Nebel… proprio così, antinazisti di vari paesi, che avevano stampigliate sulla schiena due NN, significava che potevano sparire in qualsiasi momento, per un capriccio.
Ci raccontava, il professore, aspetti e avvenimenti che non ha mai voluto raccontare in casa alla moglie e ai figli. Io stavo male fisicamente, ad un certo punto, e gli chiesi come mai riuscisse a ricordare. Spiegò che gli capitava come a tanti che, per mestiere o vocazione, si trovano quotidianamente a contatto con la morte: sopravviene l’assuefazione. Per non assuefarsi a male, guerra, razzismo (spesso figlio di un nazionalismo spinto) serve la scuola. Difatti, lì, con gli insegnanti, si riesce a formarsi mentalità critica, capacità di analisi che aiuta a non diventare preda del luogo comune, della propaganda.
Proprio dalla scuola, con fini opposti, cominciavano i razzisti.
Ho studiato Hitler in lungo e in largo, però mi hanno colpito due aspetti della sua dottrina. Nel Mein Kampf, che è la sua opera fondamentale e che, sembra incredibile, ma con la ristampa, in Germania è diventata un bestseller, scrive: “…l’idea madre…quella della razza…È necessario che non un solo ragazzo, né una sola ragazza lascino la scuola senza che siano perfettamente a conoscenza di cosa sia la purezza del sangue e della sua necessità…”.
Al di là dell’apparente rozzezza, elementare, di tali parole, il problema, di nazismo e nefaste conseguenze, è qui, nell’educazione, anzi, nell’indottrinamento. È ancora nella storia, nella scuola, troviamo l’antidoto a perversioni del pensiero: educazione a mentalità critica di fanciulli, giovani; capacità di analisi, a cominciare dalla scuola con l’infanzia in su. Presentato fenomeno da baraccone, anche il fascismo fu sempre intimamente razzista: tese a indottrinare la gioventù con termini chiave come “sangue, razza, stirpe…”, inoculati veneficamente in scuola, e tempo irreggimentato.
Le leggi razziali, del 1938, furono logica conseguenza, precedute da stragi in Etiopia e Libia; seguite da quelle in Jugoslavia e altrove. L’altro elemento che mi ha sorpreso è il concetto spregiudicato di propaganda che aveva Hitler: prendiamo il rispetto della verità. Scrive: “Il lievito più potente delle rivoluzioni è stato, in ogni tempo, un fanatismo che sferza l’anima della folla e la spinge in avanti, sia pure con una violenza isterica e non con la conoscenza oggettiva delle verità scientifiche”. E questo deve essere rivolto non all’individuo raziocinante, ma all’ “uomo massa” all’ “uomo folla”.
La scelta dev’essere pro o contro; ogni soluzione intermedia vorrebbe dire debolezza. La propaganda dovrà essere dunque popolare e, per questo, con un registro basso per interessare il più gran numero possibile di persone.
Sembra di essere al di fuori di ogni logica, ma simili mezzi, uniti alla fanatizzazione delle folle, riusciranno a mettere in moto la macchina diabolica che oscurò per non poco tempo, e per non piccoli spazi, la storia e l’umanità nel secolo scorso. E ciò nel paese, allora più colto d’Europa! Per veicolare simili metodi, e i programmi di acquisizione dello spazio vitale, annichilimento delle razze inferiori e, soprattutto degli Ebrei, la dittatura hitleriana, frutto anche delle conseguenze della Prima guerra mondiale (non dimentichiamo che Hitler in Germania si affermò con le elezioni… in Austria con l’adesione al plebiscito…), i mezzi erano potenti: radio, cinema, stampa, manifesti…tutto al meglio e al massimo dell’efficacia.
Nel 1994 sono andato a Vienna a visitare la mostra Kunst und Diktatur (Arte e dittatura) che, in centinaia e centinaia di opere, mostrava la politica culturale di Austria, Germania, Italia e Unione Sovietica fra il 1922 e il 1954. Erano artisti spesso di prim’ordine, al servizio delle dittature, con nomi che avrebbero poi fatto delle conversioni a U. La bellezza era stata posta a servizio del male.
Qualche anno fa, nel corso di un lunghissimo viaggio in Europa, dalla Finlandia in giù, abbiamo fatto tappa ad Auschwitz. Mi sembrava di conoscerlo. L’Arbeit macht frei sul portone. Non ho voluto la guida; ho girato, guardando le didascalie con l’angoscia costante della chiusura, e che chiusura! Tutto veniva restaurato con fondi europei (un buon segno) e si vedevano folle, soprattutto di giovani (la speranza). Non sono andato nelle stanze dove c’erano mucchi di capelli, di scarpe. Ho sostato al muro dove si fucilava in maniera seriale. Ho capito l’angoscia claustrofobica delle celle dove, “per punizione” (ma era possibile una assurdità simile?!) esseri umani singoli o a gruppetti dovevano stare eretti, piegati o accovacciati; dove ci andò anche il francescano padre Massimiliano Kolbe.
Ho visto i forni crematori, con il grande camino e i dispositivi fatti come si dovesse mettere del pane al forno. Nugoli di persone dappertutto e, su una panchina, un mio compagno di corriera che piangeva: veder piangere un uomo fatto è già un dolore; quando mi raccontò la vicenda, intimamente personale, di suo padre in campo di concentramento, cercai di rassicurarlo, ma non mi pareva sollevato.
Proseguimmo per il campo di Birkenau: spazi sterminati (e mi è venuto in mente quando da noi fanno problemi per conservare i campi fascisti, lenzuoli di terra in confronto). Seppi che là gli zingari - in quella situazione - furono capaci di aggrapparsi alla identità e alla nostalgia dei loro canti; sembrerebbe impossibile. Forme monotone, cartelli che spiegavano. Qui ebbi un’altra conferma: per giudicare una simile diabolica ideologia, non serviva quello che avevo studiato su Hitler e neppure quello che avevo appreso da “scienziati” - chiamiamoli prehitleriani - che sul finire dell’800 cercarono di conferire veste “scientifica” al razzismo. Mi è bastato visitare un vastissimo fabbricato di legno. Alto, ampio, con al centro e ai due lati dei fori, un numero che mi parve sterminato; dei fori di latrine, uno accanto all’altro, che falciavano ogni traccia di umanità che si potesse scorgere in teorie che avevano l’uomo come protagonista e l’uomo come bersaglio.
Nel 1952, con veste nera, cotta bianca e secchiello dell’acquasanta in mano, ero davanti alla chiesetta di San Martino, nell’ex caserma “Sbaiz” di Visco (provincia di Udine); mi hanno detto che c’era anche un vescovo a benedire quella chiesa. Ci sono tornato più di venti anni dopo e la chiesa stava morendo. Ci sono tornato nel 2000 per una manifestazione Italo-Slovena a ricordare che quello era stato un campo di concentramento fascista. Di nuovo fui preso dall’angoscia, che crebbe quando conobbi una donna di Osoppo che là era stata rinchiusa da ragazza. Quando scrissi sul campo di concentramento fascista di Visco, mandò a ringraziarmi: finalmente le credevano che lì era stata in campo di concentramento. Si dirà, non di sterminio; non di sterminio, certo, ma la mentalità era la stessa, me la confermò un internato nel campo di Gonars, un pittore sloveno, Marjan Tršar, che raccontò l’umiliante sensazione di essere considerato un inferiore, una nullità, e questo giorno dopo giorno, dietro il filo spinato.
Di Slavenka Ujdur tenni l’orazione funebre a Osoppo, come vollero i figli, che mi raccontarono gli ultimi suoi giorni, quando in lei riemergeva la paura di essere di nuovo “portata via”; come mi raccontò della sua cattura un altro ospite del campo fascista di Visco: Milan Škrlj che allora aveva sette anni e ora vive a Lubiana. I casi della vita mi portarono fra le mani il diario di un tenente medico al lager fascista di Arbe (Rab), ove è descritto come si moriva di fame. Per una mia totale comprensione del fenomeno, fu proprio la scuola, di nuovo, a fornirmi documenti: trovai un quaderno del ventennale della marcia su Roma.
A una bambina di 9 anni la maestra dettava tutto un armamentario razzista. Si cominciava da piccoli, con idee che non erano abissalmente diverse da quelle naziste, erano solo fasciste. E così si sentono ancora aleggiare, frequentemente, idee di superiorità e di inferiorità: semplici, anzi troppo elementari; con soluzioni altrettanto semplici. Stiamo attenti alla “semplicità”, quando in ballo sono le vicende di esseri umani. Anche quello che dettava le frasi che ho citato all’inizio: era cominciato così e sappiamo come è andata a finire.
C’erano già stati degli allarmi prima in Germania e anche qui in Italia; per concludere, ne segnalo uno, iniziato nel 1936 e concluso il 17 febbraio del 1937.
Lojze Bratuž, a Pogora, Piedimonte, venne aggredito dai fascisti e costretto a bere l’olio di ricino misto a olio di macchina, morì dopo un’atroce agonia. Era un musicista orgoglioso di essere sloveno; ma era un diverso.
Nelle scuole, nostre, sarebbe utile informarsi su di lui e sui figli piccoli che lasciò e sulla poesia della vedova Ljubka Šorli…
E sarebbe utile visitare un ex campo di concentramento fascista, che abbiamo a portata di mano: a Visco ce n’è uno, intatto nel suo cuore logistico, per fortuna vincolato dalla Soprintendenza, che ha fatto il proprio dovere in maniera egregia.
Sta cadendo tutto; la politica, che pure è un’arte nobile (Paolo VI l’ha legata alla carità!), salvo eccezioni, se ne disinteressa. Anche qui, si preferisce dire “È stato lui!”, riferendosi ai nazisti. Ma le colpe ci sono. Anche il campo che cade è lì a ricordarlo, aspettando che qualcuno si ricordi e lo valorizzi facendolo parlare di storia e di pace.
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