Dal ghetto alla scalata sociale
Trieste, 1719: l’istituzione del porto franco da parte di Carlo VI d’Asburgo porta con sé libertà e privilegi per tutte le etnie e le confessioni presenti in città. Fra queste, la comunità ebraica, che nel Settecento sarà protagonista di una notevole scalata sociale, favorita da una serie di provvedimenti imperiali: nel 1753, la concessione ad alcuni ebrei benestanti di risiedere fuori dal ghetto di Riborgo; nel 1771, l’esenzione dall’obbligo di indossare il distintivo giallo e l’abolizione della tassa personale; nel 1782, la patente di tolleranza emanata da Giuseppe II, grazie alla quale gli ebrei vengono ammessi a cariche e professioni fino ad allora vietate; nel 1785, l’abbattimento delle porte del ghetto. L’emancipazione avanza con il breve dominio di Napoleone, che nel 1810 proclama l’uguaglianza religiosa e civile di tutti i cittadini, per poi retrocedere con la successiva Restaurazione asburgica: ma il processo è ormai inarrestabile e nel 1867 il kaiser Francesco Giuseppe proclama l’equiparazione dei diritti religiosi, politici e civili.
Per capire il peso assunto dalla comunità nella vita di Trieste, dove fino al 1912 esistevano ben quattro sinagoghe, è illuminante la visita al cimitero ebraico di via della Pace n. 4, nato nel 1842 in sostituzione di quello quattrocentesco di via del Monte, diventato insufficiente. Come nella migliore tradizione giudaica, è immerso in una natura lasciata libera di abbracciare, coprire e financo scardinare le tombe: l’ambiente, di grande suggestione, sembra uscito da un quadro di un artista romantico. Fra i nomi incisi sui sepolcri ci sono quelli delle famiglie che hanno fatto la storia della città: Morpurgo, Weiss, Pincherle, Luzzatto, Stock, Eppinger. E in moltissimi casi si tratta di banchieri, assicuratori, operatori di borsa, librai, medici.
Gli anni dell’emancipazione
All’inizio del Novecento, la comunità ebraica di Trieste è prospera, numerosa e ben integrata: di qui l’esigenza di concentrare in un unico luogo, maestoso e ricco come una chiesa cristiana, tutta la propria attività religiosa e culturale. La nuova sinagoga di via san Francesco 19, che vede la luce nel 1912 su progetto di Ruggero e Arduino Berlam, è un tripudio di marmi, decorazioni e pilastri che dichiara apertamente l’emancipazione raggiunta.
Nel 1919, quando la città diventa italiana, anche le ultime discriminazioni spariscono. La conquistata libertà spinge gli ebrei triestini a essere d’aiuto ai fratelli dell’Europa dell’Est, vittime di quei massacri per i quali la lingua russa aveva coniato un termine specifico: pogrom. Nel 1921, in via del Monte 7, viene quindi istituito il Comitato italiano di assistenza agli ebrei ‘Misrad Ha Sochnut Ha Yehudit’: passeranno di qui, con picchi di oltre 500 arrivi al mese dopo l’ascesa di Hitler in Germania, circa 150.000 persone per sbrigare pratiche e ottenere visti. E infine partire, su navi dagli evocativi nomi ‘Gerusalemme’, ‘Tel Aviv’, ‘Galilea’, ‘Palestina’, alla volta di Israele, la terra promessa, dal 1920 sotto protettorato britannico. Tra quei 150.000, diretto negli USA, ci sarà anche Albert Einstein.
Dalle leggi razziali alla catastrofe
La situazione muta drammaticamente dal 18 settembre 1938, quando a Trieste, in piazza Unità, Mussolini annuncia:
«Occorre una chiara, severa, coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico è dunque un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto: l’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irriconciliabile del fascismo. Tuttavia, gli ebrei di cittadinanza italiana i quali abbiano indiscutibili meriti, militari o civili, nei confronti dell’Italia e del regime, troveranno comprensione e giustizia; quanto agli altri, seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più sella nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti d’oltre frontiera e quelli dell’interno e, soprattutto, i loro improvvisati e inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino.»
Nascono così le leggi razziali fasciste, non a caso proprio in quella che era stata la più libera e multiculturale città d’Italia. In tutto il Paese, gli ebrei vengono espulsi dalle scuole e dalle università pubbliche, rimossi dagli incarichi di potere, fortemente limitati all’esercizio di svariate professioni: viene sancito, inoltre, il divieto di matrimonio fra ‘giudei’ e ‘italiani’.
Un anno dopo, scoppia la Seconda Guerra Mondiale.
Il volto dell’orrore
Dopo l’8 settembre ‘43, la Venezia Giulia entra nel Terzo Reich: con l’occupazione nazista, l’ex ‘Porta di Sion’ diventa l’ingresso all’inferno. Chiuso il Comitato di via del Monte, riapre i battenti una struttura abbandonata dal 1929: la vecchia risiera nel quartiere di San Sabba. A progettarne l’adattamento ai nuovi fini del regime è il gerarca Odilo Globočnik, nato proprio a Trieste e già noto per la costruzione dei lager di Belzec, Sobibór e Treblinka. La Risiera, oltre a centro di smistamento, diventa così l’unico campo di sterminio in territorio italiano, dotato di forno crematorio e di una stanza della morte collegata tramite un tubo speciale agli scarichi dei furgoni delle SS: una vera e propria camera a gas. Nelle diciassette celle al pianterreno, le scritte lasciate dai prigionieri sui muri raccontano ancora il terrore di quei giorni. Strangolamento, fucilazione, colpi alla nuca con una mazza ferrata, asfissia, musiche sparate a tutto volume e rumore di motori per coprire le urla di quanti finiscono nel forno ancora vivi: come ad Auschwitz, ma in pieno Friuli Venezia Giulia.
Partigiani, ostaggi, zingari, ribelli sloveni, croati e italiani, e appunto ebrei: in meno di due anni, l’incessante nuvola di fumo sputerà dalla ciminiera circa 5.000 vittime.
Il nazifascismo, però, ha le ore contate: il 25 aprile 1945, l’Italia è liberata. La notte fra il 29 e il 30 aprile, mentre le truppe alleate si avvicinano a Trieste, Globočnik ordina la ritirata e fa saltare in aria il crematorio e la ciminiera, nel tentativo di nascondere l’orrore. Qualcosa, però, rimane: il 6 dicembre, a guerra terminata, alla Procura di Stato di Trieste arriva una comunicazione con oggetto «Risiera di San Sabba, ex Pilatura di Riso (rinvenimento resti mortali)». Così recita la lettera: «Si trasmette l’accluso verbale di rinvenimento di ossa e ceneri umane venute alla luce durante i lavori di rimozione delle macerie dell’edificio in oggetto [...]. I resti mortali erano raccolti in 3 sacchi di carta di quelli usati per il cemento che, al momento del crollo dell’edificio [...], evidentemente erano stati approntati per il consuetudinario trasporto verso il mare ove venivano dispersi. Risulta infatti da testimonianze raccolte fra operai della Raffineria di S. Sabba che giornalmente due tedeschi si recavano presso il Moletto della Raffineria con sacchi sulle spalle ed ivi vuotavano a mare il loro contenuto».
La comunità oggi
Di circa 700 ebrei triestini, torneranno vivi dai lager in 19: saranno in molti, però, a rientrare in città dalla Svizzera e da vari nascondigli sparsi per l’Italia. Storie di rifugiati, salvataggi e piccoli grandi eroismi, in effetti, non mancano: una di queste è narrata nella conferenza che il filosofo Hans Jonas, autore del saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz, tenne nel 1993 a Percoto, ricevendo il premio Nonino. Jonas, volontario della Jewish Brigade, la formazione ebraica della Palestina all’epoca protettorato inglese, arrivò a Udine nell’estate del ‘45: qui conobbe due sorelle triestine, scampate alla Risiera grazie a un funzionario delle ferrovie che le aveva guidate lontano dal controllore della milizia fascista, per poter prendere il treno della salvezza. Scesero a Udine, dove nessuno le conosceva, e qui trovarono un alloggio. Iniziarono a vendere pezzo per pezzo i propri averi per comprare il cibo al costoso mercato nero: finché, esaurite le riserve, pagarono un chilo di lardo a un prezzo esorbitante. Ma quella stessa notte, la signora del mercato nero bussò alla loro porta: «Perdonatemi, vi prego. Non sapevo chi foste quando vi ho venduto il lardo questa mattina. Me l’hanno detto soltanto dopo, e sono venuta per scusarmi. Da voi non voglio soldi». Riconsegnato il denaro alle signore, se ne andò. Un’esperienza che convinse le due sorelle a rimanere in Italia dopo la guerra, anziché trasferirsi in Israele.
Oggi, la comunità conta quasi 600 iscritti ed è tornata ad essere una realtà viva, pulsante, orgogliosa della propria identità che si rinnova nelle sue istituzioni: l’asilo nido, la scuola materna, le elementari paritarie, il centro ricreativo, la ‘Pia Casa Gentilomo’ per l’assistenza agli anziani. E, soprattutto, il Museo ‘Carlo e Vera Wagner’, allestito proprio là dove il Comitato di assistenza aveva operato dal 1921 al 1943: il civico 7 di via del Monte. Un museo che non è solo la memoria dell’Olocausto: oltre la tragedia, è infatti il luogo in cui la comunità si racconta, con i suoi oggetti secolari, i suoi libri, le sue lapidi e le tante iniziative culturali, fra cui mostre e conferenze. Perché se è vero che la Shoah è stata letta da molti come un punto ‘finale’ della storia umana, «rimane altresì vero che ogni fine nella storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico ‘messaggio’ che la fi ne possa presentare.
L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. Initium ut esset, creatus est homo, “affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo”, dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo» (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo).
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