“Sono stufo di vedere mio figlio con le cuffiette nelle orecchie”. Un ritornello che sempre più spesso i genitori di oggi ripetono spazientiti, preoccupati dall’ascolto quotidiano e continuo di musica da parte di un gran numero dei giovani d’oggi. Eppure la musica è una componente essenziale nella vita degli esseri umani di tutte le epoche. Ecco perché prima di prendere determinate posizioni è bene riflettere sulla storia passata e sull’evoluzione tecnologica del presente.
Ascoltare? No, sentire
Partiamo dal secondo aspetto. L’evoluzione tecnologica della nostra società sta creando persone “multitasking”, in grado cioè di compiere più azioni contemporaneamente. Inevitabilmente i giovani, ovvero la generazione dei nativi digitali, meglio si contraddistingue per questo genere di capacità.
Prima osservazione che mi verrà fatta: studiare ascoltando musica non è possibile. Rispondo io: perché? Premesso che se un ragazzo non ha voglia di studiare, non lo farà né con né senza le cuffiette all’orecchio, mi preme sottolineare una differenza importante. Quella tra ascoltare e sentire. La musica infatti apparentemente si ascolta, ma in realtà si sente. In altre parole viene percepita dal corpo, entrando in empatia con la persona.
Per questo motivo la musica non tende a distrarre da ciò che si sta facendo, ma può anzi aiutare a farlo meglio.
A tal proposito anche gli impianti audio di ultima generazione tendono a valorizzare i suoni “bassi”, proprio per favorire la percezione corporea.
Mi si dirà: “Allora è corretto che gli studenti stiano in classe con le cuffiette nelle orecchie?”. Risposta: no, ovviamente. Perché in quel caso significherebbe semplicemente che l’allievo non ha alcuna voglia di ascoltare l’insegnante. E questo non è un problema di musica, ma un’altra storia.
La mia banda suona il rock
Accennavo in precedenza al ruolo della storia passata. Ogni epoca infatti ha le sue musiche e, quasi sempre, le musiche che piacciono ai giovani non vengono apprezzate dagli adulti. Ai giorni nostri, mi capita sovente di ascoltare le lamentele di genitori nei confronti del tipo di musica amata dai propri figli, considerata troppo frenetica nei suoni e nella velocità delle battute. Per loro quasi inascoltabile.
Eppure i genitori e i nonni di oggi sono in gran parte i giovani degli anni ’60 e ’70, periodo in cui il loro amato rock ‘n roll veniva definito “musica del diavolo”. Senza scomodare compositori straordinari come Mozart e Beethoven che, in gioventù, non erano certo ben visti degli adulti della loro epoca.
E questo perché la musica è di per sé innovazione, attività, evoluzione. Ma quando ciò non viene compreso, succede che i giovani vengano emarginati perché la musica che amano non è nemmeno considerata musica. E l’emarginazione porta con sé nuovi problemi.
Comprendere, non condannare
Un esempio in tal senso è fornito dai rave party: raduni di giovani che, senza richiedere autorizzazioni e pagare la tassa sui diritti d’autore, si ritrovano illegalmente in luoghi sperduti per ascoltare musica elettronica. E spesso fare uso di sostanze. Col rischio, come non di rado accade, che ci scappi il morto.
Per spiegare il mio ragionamento senza essere malinteso, riporto un fatto realmente accaduto. Nella nostra regione qualche mese fa gli organizzatori di un rave party avevano chiesto la presenza di un’ambulanza all’evento, per prevenire possibili situazioni di criticità. La disponibilità a presenziare da parte degli operatori sanitari aveva fatto insorgere le forze dell’ordine: quel raduno non era autorizzato e l’ambulanza non poteva presenziare.
Mi permetto di dissentire. Proprio per la tutela dei giovani. I rave party vengono organizzati mediamente una volta al mese nel territorio della nostra regione o zone limitrofe (in particolare al confine con la Carinzia), con la partecipazione di centinaia di giovani. Più si è cercato di proibirli, più sono stati organizzati in posti sperduti, con rischi sempre maggiori per i partecipanti.
Sottolineo un aspetto: non voglio giustificare i rave party. Ma è innegabile che rappresentino un fenomeno che, nonostante i divieti, è più forte che mai. Non sarebbe allora cosa saggia che gli operatori del mondo sanitario potessero parteciparvi per avvicinarsi ai ragazzi, parlare con loro e capire le motivazioni e le dinamiche che li spingono a questo genere di divertimento?
È fondamentale avviare quanto prima un confronto con i nostri giovani e non dire “questi eventi non devono esistere”. Perché la realtà è un’altra. Anche per questo motivo, desidero chiudere la mia riflessione riportando le affermazioni di un rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a un recente convegno: “I giovani sono una risorsa in diminuzione in un mondo con la popolazione sempre più anziana. Vanno valorizzati e protetti, non sempre colpevolizzati. Altrimenti non faremo altro che impoverire una risorsa già povera”.
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