La vicenda delle privatizzazioni di alcune società pubbliche previste nel Decreto Stabilità e delle mancate “privatizzazioni” di alcune aziende di trasporto pubblico locale la dice lunga sullo stato del contesto istituzionale italiano.
La prima vicenda ha visto il ministro dell’Economia fare esercizio di pendolarismo tra Bruxelles e Roma in quanto la Commissione Europea aveva mosso alcune critiche alla politica economica italiana sollevando perplessità sulla possibilità di destinare maggiori risorse agli investimenti pubblici.
Il programma di dismissioni (ENI, SACE, ENAV, Grandi Stazioni, Fincantieri, CDP Reti), perché di dismissioni si tratta in quanto soltanto in due casi si cederebbe la quota di maggioranza, è stato quindi pensato e finalizzato per ottenere maggiore flessibilità da parte dell’Unione europea (Ue) nel permettere maggiori spese per gli investimenti (si parla di circa 3 miliardi di euro). Viene da chiedersi perché si debba sempre sentirsi dire dagli altri che cosa fare, rappezzando con affanno soluzioni in condizioni di emergenza.
Sembrerebbe peraltro che la montagna partorirà un topolino: il debito pubblico italiano è attualmente pari a circa 2.068 miliardi, una riduzione dello stesso di 6 miliardi – circa lo 0,3 per cento – rivenienti dalle dismissioni non sembra un intervento molto incisivo.
La vicenda della aziende di trasporto pubblico locale italiano è un’altra telenovela che non riconosce il fatto che molto spesso queste aziende mancano del requisito basilare dell’economicità della gestione. Anche al netto della loro funzione “sociale”. La loro missione sociale è stata per anni piegata verso obiettivi extra istituzionali da una classe politica che ne estrae benefici corporativi che nulla hanno a che fare con il “bene comune”.
Molti ritengono che causa di questi fallimenti economici sia l’austerità a cui il nostro Paese è sottoposto ormai da anni, senza che si veda l’uscita dal tunnel. Chissà se i sostenitori del manifesto “austerità causa di tutti i nostri mali” persisterebbero nell’affermare che la crisi è causata dall’impossibilità di spendere liberamente per far quadrare i conti, anche di fronte alle evidenze emerse da una recente analisi del professor Roberto Perotti sui costi dei Consigli Regionali (si rinvia a http://www.lavoce.info/quanto-costano-consigli-regionali/ per gli aspetti metodologici, analitici e interpretativi).
Nell’analisi quella considerata è la spesa totale per l’anno 2012 (quindi comprensiva degli emolumenti ma anche di tutte le altre voci): è un indice della spesa che le Regioni ritengono necessaria per mettere i Consigli in grado di svolgere il proprio lavoro. La spesa complessiva dell’insieme delle Regioni risulta superiore a 1 miliardo di euro.
La media italiana è di 875.000 euro per consigliere ma con molta dispersione: si passa dai 410.000 euro della Valle d’Aosta e i 415.000 euro del Trentino a 1.000.000 di euro per consigliere in Piemonte, 1.500.000 in Calabria, 1.700.000 in Sicilia.
Se vi sono dei costi fissi, ci si aspetterebbe che nei consigli più piccoli il costo totale medio per consigliere sia più alto. I dati invece indicano l’esatto opposto: più grande il consiglio, più alto il costo totale medio per consigliere.
Sembra che vi siano quindi notevoli diseconomie di scala. Il costo totale è ovviamente influenzato anche dalla grandezza della regione. Nella regione più popolosa, la Lombardia, mantenere il consiglio regionale costa 7 euro all’anno per abitante (inclusi anziani e bambini); nella meno popolosa, la Valle d’Aosta, costa 112 euro per abitante.
L’elevata variabilità è riscontrabile anche nell’ambito di regioni simili a livello dimensionale. Ad esempio nelle regioni “piccole” del Centro Nord con una popolazione sostanzialmente uguale, il Consiglio Regionale del FVG costa circa il doppio per ogni abitante rispetto alla migliore dello stesso raggruppamento. In altro raggruppamento il Piemonte, con una popolazione identica all’Emilia Romagna, ha un costo per abitante doppio.
Le evidenze e le vicende qui sommariamente descritte sono soltanto alcune delle “disfunzionalità” che quotidianamente il cittadino italiano sperimenta, come fruitore di servizi pubblici, come contribuente e come consumatore. Sembra di essere in un mondo, o meglio nella confluenza di mondi paralleli in cui non esistono vincoli, sostituiti da incentivi perversi e disfunzionali, in cui deficit e debito pubblico rappresentano la valvola di sfogo di intermediazioni parassitarie che al patto sociale hanno sostituito un modello di rendite di posizione a tutti i livelli per la tutela dello status quo.
Dall’edizione autunnale della ricerca “Climi Sociali e di Consumo” di GfK Eurisko emerge il perdurare del clima di sfiducia verso le istituzioni pubbliche, le preoccupazioni sul mercato del lavoro e il peso delle tasse, l’attenzione ai prezzi ai massimi storici e la riconferma delle strategie attivate di riduzione dei consumi e ricerca della convenienza.
La sfiducia nelle istituzioni è sempre più elevata: negli ultimi due anni è stato perso il 30% del capitale di fiducia: sempre più italiani non ritengono le istituzioni pubbliche un alleato nel superamento della crisi. Ma qual è il ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico?
La letteratura economica contemporanea che pone al centro dell’economia le istituzioni è ormai vasta. Il fatto che le istituzioni sono variabili importanti per lo sviluppo e per la crescita economica e nelle scelte degli operatori economici è largamente accettato. Tuttavia il dibattito circa l’impatto che le istituzioni possono avere sulla crescita economica, su come le istituzioni rientrano nei processi economici e sulla funzione che esse svolgono è aperto e spesso controverso.
In generale, si può assumere che le istituzioni economiche, in senso ampio, comprendano sia istituzioni informali sia istituzioni formali. Le prime sono intese come regole comportamentali, norme sociali, rapporti di fiducia tra gli agenti economici, costumi e consuetudini. Le istituzioni formali sono invece riconducibili alle organizzazioni, leggi, norme e regolamenti e agli operatori economici stessi.
Entrambe sono componenti fondamentali nei processi decisionali e nelle interazioni degli operatori economici. Il ruolo delle istituzioni, informali e formali, è infatti duplice: da una parte esse influenzano il livello dello sviluppo economico; dall’altra parte lo sviluppo economico condiziona l’evoluzione e il cambiamento delle istituzioni.
Le istituzioni economiche variano da paese a paese e sono differenti nei diversi contesti sociali. Ad esempio una legge che stabilisce una determinata aliquota fi scale, diciamo superiore al 50%, ha un certo effetto nei paesi del Nord Europa nel senso che non incentiva l’evasione fi scale, aumenta l’introito fiscale dello Stato e garantisce la distribuzione, da parte dello Stato, di migliori servizi pubblici.
Le differenze nelle prestazioni economiche risultano quindi influenzate dal modo in cui le istituzioni, informali e formali, interagiscono ed evolvono in un determinato periodo storico e in un dato contesto sociale.
Le riforme, le nuove leggi e regolamenti non si traducono meccanicisticamente in cambiamenti immediati. Nuove istituzioni richiedono un processo evolutivo di apprendimento, l’osservazione di nuovi comportamenti in base alle nuove regole, la ripetizione degli stessi. Sono soprattutto i risultati di queste interazioni e comportamenti che incentivano o disincentivano l’interiorizzazione di quelle regole e quindi permettono o meno l’istituzionalizzazione, appunto, dei nuovi comportamenti e delle nuove istituzioni. È un processo che richiede tempo e il superamento di inerzie che possono ostacolare tale evoluzione.
Riforme politiche ed economiche sono quindi contesto-dipendenti, dipendono cioè dagli assetti e dalle regole di fondo formali e informali, e quindi dal sistema di valori alla base di questi assetti, che possono essere di volta in volta differenti, proprio perché determinati, in circolo, dal contesto sociale e ambientale.
Sono stati condotti diversi studi per misurare la qualità delle istituzioni fra diversi paesi, con l’obiettivo di spiegare il differenziale nei tassi di crescita, ponendo in correlazione la crescita del PIL con la crescita della forza lavoro, dello stock di capitale e di una variabile che misura l’impatto delle istituzioni e della governance di un sistema Paese sul PIL. Il risultato principale è che le discrepanze maggiori nei differenziali di crescita e dei redditi pro-capite dei paesi sono determinate dai fattori istituzionali.
Per concludere, un ruolo centrale nei processi di sviluppo economico viene svolto dagli assetti istituzionali e pertanto le cause della bassa crescita non vanno attribuite ai soli vincoli esterni che richiedono “austerità”. La nostra capacità di generare futuro dipende dalla capacità di riconoscere e distinguere i fattori istituzionali e comportamentali disfunzionali e di concorrere proattivamente al loro cambiamento.
Commenta per primo