Solo un profano della pallacanestro non sa chi sia il “Betta”, bello da guardare come uomo, ma degno di ammirazione soprattutto come atleta ed eccellente tiratore. Uno sportivo davvero orgoglioso di essere friulano, generoso ed impeccabile, trascinatore nel gioco di squadra ed artefice di memorabili successi dell’A.P.U. Udine fino al 1992. I giovani forse lo identificano meglio come colui che assieme a Lilia, Marina, Marco ed Alessio promuove e gestisce Antico Maso e Pony Creek. L’uomo che dalla palestra, in cui ha trascorso migliaia di ore di allenamento e gare sul parquet, è passato al mondo della natura insieme ai suoi cavalli, con un entusiasmo non dissimile da quello che animava la sua passione sportiva. Il protagonista della nostra intervista è Lorenzo Bettarini, una vera icona del basket friulano... ed un uomo che manifesta una simpatica, realistica filosofia di vita.
Quando e come hai scoperto la passione per la pallacanestro?
«Nel lontano 1963, avevo 7 anni, ho iniziato a frequentare i centri minibasket alla Scuola elementare “Pietro Zorutti”. Tra i miei primi allenatori, ricordo con intensità il professor Antonio Isola, con cui negli anni mi sono ritrovato a collaborare per il Pogetto Snaidero e per l’organizzazione di molti campi estivi di basket».
Cosa hanno significato 15 stagioni di militanza nell’Associazione Pallacanestro Udinese, di cui 12 in Serie A, per te giovane friulano?
«Non tutte 15, per il vero, da «giovane friulano»; le ultime sicuramente da «friulano maturo». Infatti, anche quando nei miei anni migliori ho avuto richieste da altre squadre (Siena prima e Verona poi) meritevoli di attenzione sia per l’importanza della proposta tecnica sia per l’entità di quella economica, alla fine ho sempre declinato. Senza rimpianti».
Scelta rara nel mondo dello sport-business…
«Nel mio caso qualsiasi altra sistemazione dal punto di vista motivazionale passava in secondo piano rispetto alla possibilità di giocare con i colori della mia città».
Qual è la vittoria che ricordi con più gioia?
«Giocando sempre ad Udine, non ho mai avuto la facoltà di giocare finali prestigiose o per la nazionale, benché ci siano stati interessamenti. Ricordo però con particolare orgoglio l’annata Gedeco, con allenatore Lajos Toth (un uomo e un nome indimenticabili). Molte vittorie di quella stagione mi sono rimaste nel cuore soprattutto per la coesione e per l’affiatamento di quel gruppo».
E la vittoria più sofferta?
«Senza dubbio una partita-salvezza degli anni Fantoni, giocata sul campo di Forlì con un ritmo da cardiopalmo e traguardo conquistato con il cuore: 30 punti Bettarini, 31 Winfred King, 29 Henk Mcdowell, 2 Cecchini».
Ancora oggi detieni il record di percentuale di tiri da tre punti realizzati in un campionato di Serie A: che significato ha per te?
«Ogni anno compro l’Annuario della FIP (Federazione Italiana Pallacanestro, ndr) per vedere la classifica storica di ogni epoca della percentuale in carriera da tre punti. Quando leggo che sono ancora primo, mi scappa un sorriso compiaciuto…».
Da quasi vent’anni rivesti il ruolo di allenatore sia in ambito seniores che giovanile: che suggerimenti daresti ai ragazzi che vogliono intraprendere questo sport?
«Suggerisco sempre a genitori e dirigenti che fino all’adolescenza è importante che un ragazzino sia “polisportivo”, o quanto meno che pratichi uno sport individuale ed uno di squadra. Poi, verso i 14 anni sarà la passione a scegliere per lui. Certamente la pallacanestro, che è considerata l’atletica giocata, ma in generale ogni sport di squadra, sono particolarmente formativi, non solo dal punto di vista fisico. Nel basket, come negli altri team-sport, si deve riuscire ad affermare la propria individualità senza soffocare o prevaricare quella dei compagni».
Hai concluso l’attività agonistica nel 1992: quanto e come differisce la pallacanestro odierna da quella degli anni Novanta?
«Oggi ci sono molto più atletismo e fisicità a scapito, per fortuna non sempre, di un po’ di tecnica individuale».
Breve digressione in rosa: come giudichi il livello della pallacanestro femminile?
«È forse meno fisica, ma sicuramente più tecnica e più tattica. Non si può parlare di differenze, ma di un altro sport: c’è la pallacanestro maschile e c’è quella femminile, apprezzabilissima anch’essa. Anche a livello agonistico».
In che senso?
«Nella pallacanestro maschile l’agonismo si evidenzia per i mezzi fisici espressi, ma quella femminile rivela più grinta e determinazione».
Ritorniamo al 1992: appese le scarpe al chiodo, avevi già le idee chiare sul futuro?
«Nei miei ultimi anni da giocatore, tutti pensavano che avrei avuto un futuro da direttore sportivo o da general menager, perché sono stato sempre interessato a questo aspetto dello sport, avendone avuto anche esperienza diretta. Poi ho iniziato ad allenare: amo questo sport e quando si comincia ad allenare, in particolare ragazzi giovani, ci si rende conto che non c’è nulla di più bello che formare piccoli giocatori e piccoli uomini».
E la passione per i cavalli com’è nata?
«Tutto è dipeso dalla scelta di vivere con la mia famiglia in campagna e dall’intuizione di mia moglie Lilia che non voleva vedere sulle nostre colline e sui nostri terreni mais o soia, ma piccoli puledri gioiosi».
Nel tuo allevamento hai prediletto la razza Quarter Horse: come mai?
«Perche si tratta di una razza adatta a lavorare con l’uomo e selezionata per questo. Inoltre, giocare a fare il cow boy mantiene giovani quasi come continuare ad entrare in una palestra di basket la sera. In entrambi i casi io continuo ad essere “prigioniero di un sogno”».
Perché avete deciso di affiancare all’attività di allevatori quella di avviamento all’equitazione?
«A me ed a mia figlia Marina piace confrontarci con la psicologia delle persone. Ci piace allenare bipedi e quadrupedi. Per la verità anche mio figlio Alessio, che non ha una particolare passione per i cavalli, è molto interessato alla psicologia altrui».
Di giorno all’aria aperta in una splendida cornice naturale trai cavalli; di sera ancora tra le giovani promesse della pallacanestro come allenatore. Il tuo essere uomo di sport come ti insegna a conciliare ed amare le propensioni per due attività apparentemente tanto diverse?
«Da quindici anni, quando qualcuno viene in allevamento mi trova spesso con addosso il mio giubbotto preferito, che sul lato sinistro del petto reca la scritta in corsivo «I Love Horses, Basketball and my Family (amo i cavalli, la pallacanestro e la mia famiglia (ndr)». Ricordo ancora la prima volta che l’ho indossato…».
Perché?
«Appena mi vide, mia moglie mi fece notare che la famiglia era in terza posizione. Non è così. E se ci penso bene, pur essendo tre aspetti fondamentali della mia vita e delle mie scelte, se dovessi stilare una classifica (cosa che cerco di non fare) probabilmente sarebbe invertita rispetto alla scritta».
Famiglia, basket, cavalli: ti consideri una persona fortunata?
«Penso proprio di essere stato baciato appassionatamente in bocca dalla fortuna. Ma nella mia vita, come credo in quella di tutti, ci sono stati anche dei grandi dolori».
Fuori dal parquet e dal maneggio quali sono le altre passioni?
«Compro molti libri che non ho il tempo di leggere; compro molti dischi che non ho il tempo di ascoltare; compro molti DVD che non ho il tempo di vedere. Spero, con il passare degli anni, di avere il tempo per recuperare il piacere integrale di queste grandi passioni».
Pensi mai di sederti su una comoda poltrona per sognare un’ «età matura» meno dinamica?
«In questo momento mi basterebbero tre giorni per staccare e poi ricominciare. È alle porte una stagione riproduttiva e quest’anno abbiamo grandi progetti!».
Ai giovani che incontri quotidianamente cosa auguri per il loro avvenire?
«Di appassionarsi a qualcosa e soprattutto di sorridere a se stessi, agli altri, alla vita. Io dico sempre “un sorriso che non dai è un sorriso che non hai”».
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