La questione lavorativa ha assunto la priorità assoluta nelle politiche dei governi occidentali. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto picchi inaccettabili, soprattutto nei Paesi come il nostro. Questo è tanto più vero se si prende in esame la fascia giovanile.
C’è una questione interna al lavoro che, tuttavia, anche prima del 2007 – anno dello scoppio della bolla finanziaria – ha raggiunto i tratti di un’urgenza non sempre riconosciuta o ammessa, quella dell’educazione al lavoro.
Non è affatto infrequente che ragazzi neomaggiorenni, e non solo, abbiano difficoltà a presentarsi sempre puntuali al lavoro, oppure che manifestino una capacità di tenuta più limitata rispetto ad anni fa. Capita che si licenzino o tentennino dopo essere stati redarguiti per non aver svolto la mansione così come richiesta. E, dato forse ancora più sconcertante, a volte si presentano ai colloqui di lavoro con un genitore. Ma non è finita, succede persino che alcuni genitori accompagnino i propri figli al ricevimento dei docenti all’università, per avere delle dritte.
È abbastanza chiaro che un ragazzo di 20 o 25 anni che si presenta a un colloquio di lavoro accompagnato da mamma e papà ha definitivamente affossato la possibilità di conquistarsi quel posto. Parimenti il docente si fa una pessima impressione del ragazzo e della sua famiglia.
In questione sono i sistemi educativi prevalenti nel nostro Paese dal secondo dopoguerra a oggi. Non è raro che i datori di lavoro trovino i ragazzi stranieri dei Paesi in via di sviluppo più capaci di tenere l’occupazione, oltre che più abili nell’esecuzione stessa delle mansioni affidate.
E il riferimento non è solamente agli ingegneri indiani o ai tecnici o manovali cinesi. Esiste un problema strettamente connesso a un’educazione alla vita adulta. Per lavorare sono necessarie abilità come la resistenza nelle difficoltà, l’obbedienza ai superiori, la capacità di lavorare in squadra, l’assiduità nell’impegno, il senso del dovere: tutte qualità morali legate alla interiorizzazione del principio di realtà. Il diritto del lavoro prevede, nel caso di lavoro subordinato, il dovere della prestazione (obbligazione principale) e poi della diligenza, dell’obbedienza e della fedeltà da parte del lavoratore. Tali comportamenti sono obbligatori e possono essere assunti concretamente solo da chi è introdotto alla vita adulta.
Come si vede, a creare il problema non sono innanzitutto i giovani, bensì gli adulti. Le problematiche giovanili sono il riflesso della crisi dell’identità degli adulti. Spesso gli adulti hanno ecceduto e prolungato le loro modalità di protezione dei ragazzi, impedendo loro di poter scoprire e misurarsi con la complessità e la ruvidità del reale. Tendenzialmente un ragazzo oggi fa più difficoltà a sopportare le asprezze della vita, a lottare per ottenere quello che vuole, ad accettare le sfide quotidiane, a dilazionare le attese... Oppure non di rado gli adulti adottano un atteggiamento di segno opposto e altrettanto dannoso, quello della delega.
Senza dimenticare che anche l’educazione morale è indispensabile per una sana condotta sul posto di lavoro. E l’educazione ad atteggiamenti pro-sociali nasce dalla giustizia esercitata dagli adulti di riferimento – gli adulti significativi – ma anche dal senso morale esercitato e sostenuto da chi riveste un ruolo pubblico o comunque esercita un’influenza pubblica. L’esaltazione pubblica di esempi di dubbia moralità conduce a un inevitabile deterioramento della morale pubblica e, di conseguenza, di quella privata.
La questione lavorativa è complessa. Conosce risvolti poliedrici. Quello politico perché senza il lavoro non si vive e la società non sta in piedi. Ma ancor prima quello antropologico perché permette all’uomo di realizzarsi e di cambiare il mondo in meglio. Quello etico perché deve essere concesso a tutti: tutti hanno il diritto-dovere di impegnarsi.
E sicuramente anche quello educativo perché al lavoro hanno il diritto-dovere di accedervi persone con un minimo di ossatura morale.
L’educazione al lavoro si traduce in educazione alle virtù. La virtù è “l’abito operativo buono”, “l’abito che perfeziona l’uomo nel bene operare” secondo San Tommaso. La virtù è una disposizione stabile a comportarsi secondo principi buoni. Le virtù strutturano il carattere morale dell’uomo, l’ossatura dell’uomo, rendendolo capace di lottare per realizzare i propri desideri più autentici e di non sbandare nei momenti più ardui che l’esistenza riserva.
Virtuoso è l’uomo che sa combattere, che sa qual è il giusto mezzo, che tiene la barra al centro.
L’acquisizione dell’habitus non è immediata e spesso necessita di vera perseveranza. Sicuramente cresce e si instaura con l’educazione e grazie all’esempio quotidiano di figure positive che sappiano indicare quali sono i comportamenti giusti, bacchettare quando non vengono seguiti, e soprattutto comportarsi loro stesse responsabilmente.
La pedagogia dell’esempio è sicuramente quella più incisiva. I giovani hanno bisogno di adulti virtuosi, di adulti che ogni giorno si impegnino nel loro lavoro, qualunque esso sia, con passione e fedeltà.
Le pratiche lavorative inoltre sono esse stesse un’occasione educativa. Il lavoro forma alle virtù. Spesso i ragazzi – anche i più difficili e che arrancano a scuola – riescono ad acquisire competenze attraverso il lavoro.
L’esempio dei CFP (Centri di Formazione Professionale) è lampante. La prassi struttura la persona, rafforza il carattere, potenzia la motivazione, favorisce l’interiorizzazione dei valori. Il lavoro è una scuola. La persona spiritualizza il lavoro e attraverso il lavoro può cambiare il mondo e se stessa.
L’educazione al lavoro e mediante il lavoro rappresenta una sfida connessa a quella occupazionale. Il lavoro richiede adeguata formazione, una formazione di tipo morale prima ancora che tecnica. Ed è al tempo stesso una palestra formativa, perché struttura la personalità morale dell’uomo.
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