Freud a Trieste: la scoperta di una vocazione
Estate 1876: si chiama Sigmund Freud il giovane ricercatore che, da Vienna, arriva alla Stazione Zoologica di Trieste per studiare gli organi sessuali dell’anguilla; esaminati circa 400 esemplari, torna in Austria e l’anno dopo edita la sua prima pubblicazione scientifica. In questa bizzarra, ma serissima ricerca c’è già il futuro inventore della psicanalisi: dall’apparato sessuale degli animali a quello nervoso, il passo è breve; dall’animale all’uomo, ancora di più. Perché la psicanalisi freudiana è l’ultimo colpo inferto all’idea dell’uomo come misura di tutte le cose: dopo Copernico, che sposta il Sole al centro con la Terra relegata a ruotarvi intorno, dopo Darwin, che dimostra la discendenza dell’uomo dalla scimmia, Freud squarcia il velo dell’Inconscio, baratro irrazionale dove albergano pulsioni, istinti, energie animalesche che guidano inconsapevolmente la vita umana. E poi la rimozione, il lapsus, l’interpretazione dei sogni: un infinito vaso di Pandora che Freud inizia a scoperchiare proprio a Trieste. Una città che lo affascina e che, al tempo stesso, fa affiorare le sue nevrosi: «Se, dopo diciotto anni di vita di topo di campagna, trasportato all’improvviso sulle rive di uno dei mari più belli, già al secondo giorno la cosa mi lascia indifferente come se fossi nato su una barca di pescatori, significa che sono una persona con l’infelice predisposizione a trovare tutto normale e ad abituarmi in fretta a tutto.
È un dato di fatto che l’Adriatico è veramente bello»: così scriveva, nel 1876, all’amico Silberstein, aggiungendo anche una nota sulla bellezza delle donne di Muggia. Tornerà a Trieste nel 1895 e nel 1904 e, in quest’ultima visita, avvertirà una «sensazione straniante»: la voglia, improvvisa, inspiegabile, di partire per la Grecia. Perché Trieste è luogo dell’Inconscio e porta del Sud, sogno di Mediterraneo e ansia nordica: un binomio che da lì a poco segnerà una stagione formidabile della letteratura.
Il dissidio di Svevo e di Joyce
Il 1892 è un anno cruciale: mentre Freud dà alle stampe Sulla teoria dell’attacco isterico, atto di nascita della psicanalisi, a Trieste un certo Ettore Schmitz, ebreo, padre tedesco e madre italiana, pubblica il romanzo Una vita con lo pseudonimo di Italo Svevo, riassunto della sua doppia identità culturale. Il libro è la storia di un amore che il protagonista rifiuta di portare avanti, ma dal quale, al contempo, non riesce a liberarsi: una nevrosi che lo porterà al suicidio per inettitudine. Lo stesso male che corrode l’esistenza di Emilio Brentani, l’antieroe del secondo romanzo di Svevo: Senilità (1898). E l’inetto, incapace di prendere in mano le redini della propria vita, è il nuovo personaggio della letteratura europea forgiato da Svevo, non senza allusioni autobiografi che: fuor di pseudonimo, Ettore Schmitz è infatti un ricco borghese che non ama il suo lavoro, viaggiatore suo malgrado, musicista mancato, snobbato nella sua attività letteraria che dovrà condurre per decenni in segreto. Ma c’è un risvolto inaspettato: per concludere un affare in Inghilterra, nel 1907 Svevo è costretto a frequentare un corso di inglese. Il destino lo mette nelle mani di un insegnante d’eccezione, arrivato in città da tre anni con la moglie Nora: l’irlandese James Joyce.
Scapestrato genio con ambizioni letterarie, nel 1914 pubblica Gente di Dublino, opera di vecchia gestazione ma terminata proprio a Trieste: una città di dissidi interiori come la capitale irlandese, che nel libro è teatro delle vicende laceranti di uomini ancora una volta inetti, paralizzati da un ambiente oppressivo e amorale.
La coscienza di Zeno e di Leopold Bloom
Intanto, le ombre nere raccontate da Freud diventano reali nella bestialità della Prima Guerra Mondiale. Il deserto che ne rimane porta sulla scena una letteratura molto diversa dalla precedente: impossibilitati a qualsiasi forma di vita civile, gli autori ripiegano sul loro mondo interiore.
Protagonista diventa la coscienza, pozzo senza fondo da cui pescare i sentimenti più ancestrali. Nel 1922, dopo una lunga creazione iniziata a Trieste nel 1915, Joyce pubblica il più importante romanzo del Novecento: Ulysses. In questa Odissea moderna, l’autore traccia il profilo di un giorno ‘qualsiasi’ nella vita del dublinese Leopold Bloom. E l’esperienza triestina - finita nel 1916 dopo undici anni – è determinante nell’invenzione della tecnica narrativa più audace del romanzo, quel flusso di coscienza in cui le parole scorrono senza punteggiatura, senza nessi, come nel pensiero:
Che ora soprannaturale io ritengo che si stiano appena alzando ora in Cina pettinando le loro treccine per il giorno molto presto le monache hanno l’angelus che suona loro non hanno nessuno che venga disturbare il loro sonno eccetto un inaspettato prete o due per il suo officio notturno la sveglia della porta accanto al canto del gallo che sbatte il cervello fuori da sé stesso fammi vedere se riesco a sonnecchiare 1 2 3 4 5 che tipo di fiori sono questi che hanno inventato come le stelle la carta da parati in Lombard street era più carina il grembiule lui mi diede era come solo quel qualcosa io lo indossai solamente due volte meglio più in basso questa lampada e provo di nuovo cosicché io posso alzarmi presto [...]
(dal monologo di Molly Bloom, moglie di Leopold; trad. Marilena Beltramini).
Come sul lettino del dottor Freud, assistiamo all’associazione libera di idee in movimento. Meno radicale, ma altrettanto psicanalitico è il capolavoro che Italo Svevo pubblicherà appena un anno dopo Ulysses: La coscienza di Zeno. Il libro, nella finzione dell’autore, è il memoriale di Zeno Cosini edito dal suo psicanalista, il dott. S., per vendicarsi dell’ex paziente che non ha voluto proseguire la terapia. Il rapporto ‘irrisolto’ con il padre defunto, costellato di silenzi e disprezzo; il vizio del fumo, un misto di amore e odio; il matrimonio con Augusta, un ripiego dopo il rifiuto delle sue due sorelle; la relazione con l’amante; le gelosie sotterranee all’interno del parentado e il suicidio di un familiare: un romanzo sull’impossibilità, nel malato mondo moderno, di realizzarsi come uomini. Con un finale impressionante di nera ironia:
Forse, traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni, ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Ventidue anni dopo, Hiroshima e Nagasaki avrebbero visto realizzarsi la profezia. Resta da chiedersi: chi si cela dietro al dottor S.? Forse, Edoardo Weiss, l’analista triestino allievo di Freud che introdusse per primo la psicanalisi in Italia. Da lui, fra il 1929 e il 1931, fu in cura un altro grande: Umberto Saba.
La terapia di Weiss non lo guarirà, ma aprirà una nuova fase della sua poesia, limpida e struggente nel rievocare un passato con cui, finalmente, farà pace. Dirà, a proposito della psicanalisi: «Amai la verità che giace al fondo, / quasi un sogno obliato, che il dolore / riscopre amica. Con paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona».
L’epilogo: la rivoluzione di Franco Basaglia
Ben diversa, in quegli anni, la situazione della sorella maggiore della psicanalisi: la psichiatria. Nella società della produzione industriale, il matto è pericoloso e improduttivo e, dunque, va recluso nei manicomi, dove la barbarie diventa sistema: catene, pestaggi, veleni, sterilizzazioni, lobotomie, abuso di elettroshock. Ma dopo l’orrore del Nazismo, l’Occidente inizia ad aprire gli occhi. E, per una volta, all’avanguardia è proprio l’Italia. Precisamente, la nostra regione. Nel 1961, alla direzione del manicomio di Gorizia arriva un giovane psichiatra veneto: Franco Basaglia. Il suo impatto con la realtà dei malati di mente è devastante: vede sbarre, chiavi, catene, urla, sporcizia, uomini ridotti a larve dopo anni di pestaggi, umiliazioni, privazioni.
La sua risposta è rivoluzionaria: nasce, sulla scia di esperienze già in atto in Europa, la comunità terapeutica, in cui il paziente partecipa, responsabilmente, alla gestione del luogo in cui viene ospitato e al suo percorso consapevole di cura. E basta leggere le interviste ai ‘matti’ registrate da Basaglia nel suo libro L’istituzione negata (1968) o vedere quelle raccolte da Sergio Zavoli nel documentario RAI I giardini di Abele (1967), per capire la portata di quella conquista di civiltà: il malato ridiventa una persona, titolare di diritti inalienabili.
Lasciata Gorizia nel 1969, Basaglia si trasferisce al manicomio di Colorno (Parma), ma nel 1971 arriva all’istituto di San Giovanni a Trieste. Dove nel 1972 scoppia il caso: il cavallo Marco, che dal 1959 trascina su e giù per il manicomio il carrello della biancheria sporca, sta per essere mandato al macello per vecchiaia. Gli internati non ci stanno e il 12 giugno il presidente della Provincia, Michele Zanetti, riceve una lettera firmata «Marco Cavallo»: l’animale, impaurito per la sua fine, dichiara di voler essere ancora utile ai malati. Verrà salvato e nel 1973 diventerà anche una gigantesca scultura di cartapesta azzurra, portata in giro per Trieste prima e per il mondo poi: una macchina teatrale per un’utopia divenuta realtà nel 1978, con la fine dei manicomi e la creazione delle comunità terapeutiche tramite la legge 180. Una legge ancora mal applicata, se non nella nostra regione: la strada è lunga, il racconto della psyché umana non è finito.
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