Un famoso campione di ciclismo degli anni ’30 del secolo scorso, Learco Guerra, era detto la locomotiva umana per le sue grandi doti di potenza e resistenza. È raro trovare atleti simili, e se il nostro degno emulo di cotanto talento è legato allo sport della pagaia, chiamarlo il ‘Rimorchiatore umano’ è una diretta conseguenza.
Sto parlando di Alessandro Pieri (in basso in una foto degli anni Ottanta), bisiaco di Ronchi dei Legionari, classe 1963, campione di canoa, finalista olimpico a Seul nel 1988.
Alessandro, la leggenda narra che una volta hai rimorchiato da solo, durante un allenamento, una barca rimasta in panne…
Alessandro, quasi due metri di omone, arrossisce. «Non è vero… e poi era piccolissima».
Quindi la leggenda è vera perché, piccola o grande, la barca c’era.
«Era il gommone del mio allenatore, Sergio Soranzio, che aveva avuto noie al motore mentre ci seguiva in allenamento. Mi ha lanciato una cima e io l’ho rimorchiato fino in sede».
Come è nato il tuo amore per la canoa?
«Per istinto. La mia era una tradizionale famiglia di operai-contadini dediti al lavoro: non ho avuto esempi di sportivi, però dentro di me ho sempre desiderato mettermi alla prova fisicamente. Tutto è cominciato da una passeggiata in bicicletta fatta d’estate e con un caldo tale da beccarmi un’insolazione di quelle che non scordi mai; non mi sentii bene per un paio di giorni e i clienti che venivano a comprare il vino dai miei, quasi per canzonarmi, mi dissero di andare a fare canottaggio, così avrei avuto modo di rinfrescarmi».
E tu hai preso alla lettera il consiglio…
«Il mio istinto e la mia voglia di sport mi portarono, pochissimo tempo dopo, alla società Timavo, dove rimasi colpito dalla grinta e dal fisico degli atleti. Ho fatto un paio di mesi canottaggio, e poi sono passato alla canoa. Avevo quasi 14 anni».
Non giovanissimo, per uno sport dove la maturità atletica arriva dopo anni di duro allenamento.
«Sì, non ero il più giovane, e all’inizio ho avuto le mie difficoltà. A casa mia il mondo dello sport era così sconosciuto che appariva, se non inutile, perlomeno strano. Il supporto morale più grande l’ho avuto, e ancora oggi li ringrazio, dalla famiglia Steccherini, che all’epoca erano soci della Timavo, e dall’amico Moreno Lentini, che già dagli inizi tifavano per me».
A scuola come te la cavavi?
«Diciamo che non brillavo, e visto che a casa c’era bisogno, ancora minorenne sono andato a fare l’operaio. E credo che proprio in quegli anni di lavoro al chiuso, in ambienti spesso proibitivi (lavoravo al forno in siderurgia, vicino a mille gradi di calore) ho capito l’importanza di realizzare se stessi. Una mattina entrai in fabbrica e dissi che, in quello stesso istante, smettevo di lavorare per loro. Persi la buonuscita e tre mesi di contributi, ma fu la svolta».
Abbandonare il certo per l’incerto: scelta coraggiosa…
«Avevo capito che se volevo riuscire nella vita dovevo fare qualcosa che la massa non era in grado di fare».
Tipo vincere il Campionato italiano juniores, poi quello senior, ed essere quindi ammesso al gruppo sportivo delle Fiamme Gialle nel 1982 e, infine, partecipare al Campionato mondiale senior nel 1983?
«Volendo fare un riassunto veloce, è così; ma in mezzo ci sono state milioni, miliardi di pagaiate».
Duro lavoro il canoista. Io penso che allenarsi seriamente sia come lavorare con mani e piedi contemporaneamente per ore e ore. Sei d’accordo?
«Assolutamente. Considera inoltre che all’epoca eravamo dei pionieri dell’allenamento. Tante cose le abbiamo imparate dalla scuola ungherese (in Ungheria la canoa è uno sport popolarissimo, come la pallanuoto, n.d.r.), sperimentandole sulla nostra pelle, a discapito di tempo ed energie».
Il tuo allenatore della Nazionale era Oreste Perri, cremonese, leggenda della canoa, più volte campione del mondo; ti torchiava?
«Senza risparmio. Con lui giunsi alle Olimpiadi di Seul nel 1988, passando per una medaglia d’argento nel Singolo alle Universiadi del 1987 svoltesi a Zagabria».
La voce del campione si vela nella nostalgia del ricordo. «Andavo fortissimo. Alle Olimpiadi ero accreditato su due equipaggi: il K2 e il K4 1000 metri. Nel K2 ero in coppia con Bruno Dreossi, anche lui bisiaco doc come me, con il quale avevo diviso tutta la gavetta e l’adolescenza, e andavamo forte, più forte che col K4, e…».
E invece arrivaste in finale col K4, settimi al traguardo, mentre foste eliminati in semifinale nel K2. Forse l’emozione?
«La classifica finale fu così, ma l’emozione c’entra poco. La verità è che la sera prima delle competizioni venne da me in camera Perri pregandomi di dare tutte le mie energie nel K4 trascurando il K2; e io ho obbedito. Questi erano gli ordini del tecnico ed era ciò che la Federazione voleva… Perché giungere a una finale spremuto da un’altra competizione sarebbe stato un danno per tutto l’equipaggio».
Questa tua dedizione agli ordini venne almeno apprezzata?
«Purtroppo no. Alla fine quasi risultò che la mancanza dei successi fosse colpa mia… Ricevetti tante critiche. Una cosa che mi ferisce e mi imbarazza ancora oggi».
Il gigante ha la voce rotta, si capisce che soffre davvero. «Dreossi poi, a Barcellona nel 1992, vinse il bronzo in coppia con Antonio Rossi, il pluricampione olimpico, e venne in parte ricompensato dalla sorte. Sono felice per lui perché se lo è meritato, senza dubbio alcuno. Io invece mi ammalai di polmonite, divenni allergico a un po’ di cose e non riuscii più ad essere competitivo perché ogni primavera ero un disastro. È anche vero che i miei rivali erano dei fenomeni: Bonomi, Scarpa, Rossi, tutta gente che ha conquistato medaglie ovunque, dai Mondiali alle Olimpiadi, ma io non ero assolutamente da meno. Ma questo veniva annullato dalle malattie».
Quindi la tua carriera finì a Seul?
«Non proprio. Sono rimasto nel gruppo sportivo fino al 1993, proprio perché comunque ero di alto livello e le Fiamme Gialle decisero di puntare ancora su di me. Però, in uno sport olimpico si fanno programmi quadriennali: se c’è una piccola possibilità che tu finisca il tuo periodo di forma migliore prima dell’Olimpiade, sei fuori dai giochi. E le mie malattie mi impedirono di essere al meglio. Tuttavia ci tengo a sottolineare che io ho stima di tutti gli atleti, straordinari anche come uomini, che ho incontrato sul mio cammino di agonista. Il rimpianto è solo per le critiche che misero in dubbio la mia buona fede e che, ancora oggi, sono un fardello pesante da portare».
Un ricordo dolce e amaro...
«Sono sempre stato positivo. Negli anni del gruppo sportivo sentii il bisogno di tornare a studiare e presi il diploma di ragioniere. Poi, sempre in quegli anni, conobbi mia moglie, e mi dedicai a lei e alla famiglia. Abbiamo sei figli. Anche questo fu un motivo di abbandono dell’agonismo».
Qualcuno dei tuoi figli pratica la canoa?
«Si. Sia chiaro che non pretendo niente; ognuno può vivere la vita come vuole. Però io sono un pessimo esempio, nel senso che a me la canoa è rimasta nel sangue, e quindi, quando li vedo pagaiare, mi si illuminano gli occhi».
Hai vissuto per anni nel Circeo, posto affascinante dove si trova il centro sportivo delle Fiamme Gialle; che rapporto hai col mare?
«Io sono un uomo di fiume, di acqua dolce, anche perché in mare aperto è molto difficile pagaiare in modo ottimale. Anche ai tempi della Timavo, la gran parte degli allenamenti li facevamo sul canale Brancolo».
Sei molto legato alla tua prima società, vero?
«Sì. Lì sono nato sia come uomo che come sportivo. Ripenso spesso, con nostalgia, a quei tempi di sudore e allegria. A volte, se passo in sede per un saluto, mi sembra di essere ancora parte dell’ambiente».
Alla fine ti consideri fortunato o no?
«Diciamo che la porta della fortuna sportiva mi si è chiusa in faccia troppo presto. Quella della vita, invece, è ancora aperta, e spero che lo resti per sempre».
Caro Alessandro, te lo meriti proprio. Diciassette volte campione italiano di canoa, finalista di una Olimpiade, sei volte al Mondiale di velocità e una a quello di Maratona, e sei volte papà. Un uomo completo in tutti i sensi. Oggi, la tua sensibilità, mi ha fatto capire cosa provasse l’alpinista Bonatti ai tempi in cui lo accusavano di non aver fatto il proprio dovere sulla scalata del K2. Solo dopo anni gli venne riconosciuto il suo valore. Mentre ti vedo andare via esprimo il desiderio che qualcuno, che tu sai, ti stringa la mano, per tirar via quel velo di tristezza dai tuoi occhi, causato dal rimpianto per la scelta che fu, e per renderti la serenità che meriti. Grazie Alessandro, per la tua semplice, ma profonda, umanità.
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