Poco meno di un anno fa (14 settembre 2012) Facebook raggiunse un miliardo di utenti attivi, ossia di coloro che si connettono almeno una volta al mese, mentre si ipotizzava che gli utenti semplicemente iscritti fossero quasi il doppio. Nello stesso anno, il noto social network stimò circa 219 miliardi di foto caricate e 62 milioni di brani musicali ascoltati. L’identikit dell’utente medio di Facebook, infine, venne individuato nei giovani di 22 anni.
Questo è solo l’esempio più popolare di un avvento, quello delle nuove tecnologie, le cui cifre segnano una portata demografica e geografica senza precedenti. Il progresso tecnologico avvenuto nel ‘900 è stato considerato superiore a quello che c’è stato nel resto di tutta la storia. Se questa, come l’hanno definita autorevoli filosofi, è l’età della tecnica, allora dobbiamo abbandonare l’idea dell’homo sapiens sapiens per abbracciare quella dell’homo technologicus, cioè dell’individuo pensato in relazione al suo rapporto con la tecnologia.
In questa cornice i giovani sono coloro che vengono definiti “nativi digitali”, nati in seno a tale progresso, di cui sono i primi fruitori. Sappiamo inoltre che l’adolescenza è un tempo in cui i ragazzi maturano un’identità, un’appartenenza e una morale che risentono del panorama in cui si costruiscono. Pensato in questi termini, il binomio giovani e nuove tecnologie rappresenta un nodo educativo cruciale, le cui derive ci vengono ricordate spesso dalle notizie di cronaca in cui si sente parlare di cyberbullismo, di studenti costretti a cambiare scuola in seguito a denigrazioni online o, ancora, di atti sconsiderati ripresi e divulgati tramite videotelefoni. Interrogarsi su questa tematica significa avviare una riflessione responsabile su una delle cifre più significative del nostro tempo.
Possiamo esplorare il rapporto tra i giovani e le nuove tecnologie a partire dal modo in cui si vivono il corpo e il linguaggio. La corporeità è il primo elemento che viene ridefinito quando parliamo di new media, ossia dei nuovi strumenti di comunicazione. Il medium è quel dispositivo che media la relazione tra due soggetti, permettendogli di superare il limite del faccia a faccia. In questo modo il corpo non è più l’interlocutore diretto con l’altro, ma interagisce direttamente solo con il dispositivo.
Quest’evaporazione del corpo si accompagna a un venir meno di tutto quel corredo di significati ed emozioni che con esso sono veicolati, trasformando così il modo di comunicare.
Pensando invece al rapporto diretto con lo strumento, ci troviamo davanti a una corporeità vissuta in diversi modi. C’è il multitasking quando si svolgono più attività simultanee sdoppiando l’uso dei sensi, come studiare con la musica o navigare in rete mentre si è al telefono. C’è il corpo sedentario, poiché l’interazione con le nuove tecnologie privilegia gli arti superiori a discapito del resto (è il caso di chi preferisce i pomeriggi alle console piuttosto che al campetto). C’è il corpo che vede nel dispositivo una sua estensione, e al venir meno di esso viene meno una parte di sé, con le relative conseguenze. L’hanno battezzata nomofobia (no mobile fobia) quell’ansia che si genera alla consapevolezza di aver dimenticato il cellulare. Fino ad arrivare a una deriva più drammatica, quando il corpo sembra dissociarsi dalla persona per farsi oggetto a sé stante, e alla stregua di un oggetto può essere esibito, mercificato e pubblicizzato in quell’ambiente in cui, godendo dell’anonimato, si abbattono i limiti tra pubblico e privato, e assieme a essi quelli del pudore, per cui sembra non ci sia nulla di cui vergognarsi nel condividere la propria intimità. Basta fare un giro nei social network per vedere l’immagine di sé che molti giovani mostrano o di cui approfittano per definire l’identità virtuale dei propri compagni.
Accanto al corpo, anche il linguaggio si evolve secondo diverse traiettorie. Tra queste pensiamo ai nuovi termini entrati da qualche anno nell’uso corrente (come streaming, bannato, postare, loggarsi) oppure alla scrittura abbreviata che a volte dagli sms si trasferisce nei temi in classe. Evidenziare un cambiamento nel corpo e nel linguaggio significa altresì dire che cambia il modo di fare esperienza e di conoscere, in relazione alle nuove tecnologie.
Da questa breve analisi possiamo evincere come le competenze tecnico-funzionali, ossia sapere usare un dispositivo, non siano garanti di un uso corretto sul piano psicologico, relazionale o morale. Si tratta di consegnare un’eredità, che è il progresso tecnologico, assieme alle istruzioni per l’uso. Occorre dunque fornire delle pratiche e dei sistemi di riferimento che orientino a un utilizzo critico e consapevole, e che educhino a un certo modo di viversi attraverso le tecnologie. Diversamente, “nativi digitali” rischia di essere quell’etichetta che rimarca un divario intergenerazionale e che rimanda esclusivamente ai giovani utenti la responsabilità sugli strumenti che impiegano.
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