Un piede nel passato e lo sguardo nel futuro

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redazione

19 Luglio 2016
Reading Time: 4 minutes

Luca Bonaffini

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Compositore di musiche e autore di testi per canzoni, Luca Bonaffini si è affermato intorno alla fine degli anni 80 come collaboratore fisso di Pierangelo Bertoli, firmando per lui molti brani in album di successo, tra cui “Chiama Piano”, all’interno dei quali compare anche come cantante, armonicista e chitarrista acustico. ​

A fine anno uscirà il suo nuovo album contenente inediti e ballate già pubblicate che porterà in tour dal prossimo gennaio nei piccoli teatri. E un’anteprima di quello che sarà, Bonaffini la riserverà al pubblico della sua Mantova, martedì 9 agosto, in un concerto (Cortile di Palazzo San Sebastiano, il museo della città, in zona Palazzo Te) con cinque straordinari musicisti: Giorgio Buttazzo (chitarra acustica ed elettrica), Perry Magnani (pianoforte); Nicola Martinelli (voce e batteria); Emma Sereni (voce solista e cori); Matteo Pinfari (basso elettrico).

In attesa del live, abbiamo ripercorso assieme a lui la sua carriera, facendo il punto sull’attuale panorama musicale italiano.

 

Luca Bonaffini, che effetto fa tornare in scena nella propria città?

«Un effetto “affetto”. Io amo molto la mia città, specchio della mia quotidiana ricerca delle radici. Vedere facce conosciute e volti completamente nuovi mi fa sentire curioso e sicuro al tempo stesso, come un ascensore antico ma funzionante. A Mantova sono nato e cresciuto e mi sono formato come cantautore. Ed è da lì, dalla Sacra Terra delle Lettere e dell’Arte che voglio sempre ripartire».

A inizio 2017 partirà il suo nuovo tour nei teatri: dopo oltre 30 anni di carriera, ora cosa desidera comunicare al pubblico con la sua musica?

«Piccoli teatri per un genere (quello anche mio, cantautorale…) leggermente estinto. Il funerale della canzone d’autore (quella storica) si è celebrato alla fine degli anni ’70. La mia generazione ha ereditato l’arduo compito di divulgare la grandezza e la bellezza di una musica pressoché leggera ma intrisa di cultura e profumata di “gente”. La canzone popolare pensante, riflettente e auto-riflettente, che ha cantato di politica, di diritti civili e di grandi amori esistenziali. Noi, nati all’inizio degli anni ’70, “Tra le stelle di Fellini e i dischi degli Inti Illimani” come cita una frase del brano di inizio concerto, abbiamo questa missione: continuare. Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro, come direbbe Pierangelo Bertoli».

Attraverso i brani proposti proverà a rivivere 70 anni di Repubblica Italiana…

«Alcuni brani miei (come “A casa” o “Mostra Mostar”) ritraggono stralci di storia contemporanea. Disegnati però dallo sguardo delle persone. Io non giudico, non sono in grado. Sicuramente la rinascita post bellica ha generato grandi cose (anzi, meravigliose) e grandi errori. Il sistema è comunque fatto da esseri umani. Quindi, si può migliorare. E io, utopista fino al midollo, credo molto nel rinnovamento».

A proposito di rinnovamento, come valuta lo stato di salute della musica italiana?

«Pessimo. Terminale».

Meglio tornare a parlare del passato… È stato per anni collaboratore fisso di Pierangelo Bertoli: cosa ha significato per lei la sua figura?

«Lo racconto molto bene nei due libri pubblicati: il mio (La notte in cui spuntò la luna dal monte, edito da Gilgamesh) e nel libro intervista di Mario Bonanno (La protesta e l’amore, edito sempre da Gilgamesh). Consiglio di leggerli entrambi, per capire quanto Bertoli abbia significato per me e per la mia storia di cantautore».

E per la musica italiana?

«Molto. Ha distrutto barriere culturali che, a destra e a sinistra, venivano edificate dai luoghi comuni dei residui auto-conservativi. Pierangelo era un provocatore e un pensatore. Ogni canzone un mattone, un album una casa, un tour tante città: quindi la gente. Il popolo toro, contro quello bue».

Nei suoi brani lei ha spesso affrontato tematiche sociali: a suo avviso quali sono quelle prioritarie nell’Italia di oggi?

«Quelle inedite. Quelle che verranno e che dovranno essere scritte. Ogni giorno è nuovo e le canzoni sono spesso la voce di un passato che non ritorna. O meglio, gli somiglia. Ma bisogna guardarlo bene e descriverlo come è, non come sembra. Sicuramente l’immigrazione è un tema costante. Ma quello della disperata indifferenza (che pare un ossimoro) è difficile da dire dentro una canzone. E poi c’è la rabbia, il fallimento sociale, l’assassinio premeditato dei valori da parte dei media e dei poteri forti. Insomma, volendo, c’è da scrivere tutto il giorno».

Dei suoi trent’anni di carriera qual è il ricordo più bello che conserva?

«Nessuno. Ho poca memoria. E quella che ho la tengo per le canzoni belle che ho ascoltato. “Eppure soffia”, “Rimmel”, “La canzone dell’amore perduto”. Ecco. I miei vinili sono belli da rivedere. Quando li ascolto però, non è come un tempo. E questo mi piace. Mi piace non essere nostalgico, ma un po’ futurista».

E l’errore che non rifarebbe?

«Fare il cantautore. Oggi farei solo il produttore, così potrei scrivere e aiutare la musica a uscire con tante, tantissime voci».

Tra le canzoni che canterà a Mantova e poi nel nuovo tour qual è quella che la coinvolge di più? 

«“Chiama piano”. Perché a parte il cosiddetto successo (cantata da Bertoli, Concato, Nek e altri) è una canzone che mi ama. Mi segue dappertutto e non mi ha mai tradito. Quindi le voglio stare fedele».

 

Si ringrazia Lucilla Corioni per la collaborazione

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