Secondo i nativi del Nord America, le virtù del guerriero sono quattro: umiltà, forza della verità, coraggio e generosità. David Zorzet, monfalconese classe 1971, pugile di buon livello e oggi appassionato allenatore presso l’ASD Boxe Monfalcone, le possiede tutte, ma nell’umiltà devo ammettere che eccelle. Quest’uomo discreto e gentile avrebbe di che vantarsi dei suoi successi sportivi, invece prova quasi timore a mostrarmi le foto delle sue gesta sul ring.
David, quando hai cominciato eri già appassionato di boxe?
«In realtà no. Tutto è accaduto per caso: Davide Benetello, mio compagno a scuola, si era iscritto a pugliato…».
Benetello il campione del mondo di Karatè?
«Proprio lui. Eravamo compagni di banco e sentire i suoi racconti mi spinse a iscrivermi alla scuola di pugilato. Solo che io sono rimasto allo sport dei guantoni, lui invece è passato alle arti marziali dove è diventato famoso a livello mondiale».
Ti sei sentito subito a tuo agio in questo sport?
«Ero così preso che bisognava dirmi di smettere di allenarmi; il contrario di come si comporta la maggior parte degli allievi. Ero così determinato che non avrei smesso mai».
Ricordi il tuo primo incontro?
«Ho sostenuto quasi 90 combattimenti agonistici (con il 75 % di vittorie, ndr), ma ce ne sono alcuni che ricordo attimo per attimo, come il primo. Avvenne ad Ovada, in provincia di Alessandria, nel 1986. All’epoca, per regolamento, i primi tre incontri dovevi farli con principianti del tuo stesso livello. Affrontai un avversario che era al suo terzo incontro mentre io ero all’esordio, e così la prima ripresa fu appannaggio suo…».
E quelle successive?
«Quando sono andato all’angolo il maestro Bulian disse: “Adesso, caro il mio ‘Fumera’, vai lì e fai quello che fai in palestra, altrimenti ti prendo a calci fino in Friuli”».
Perché ‘Fumera’?
«Era il mio soprannome; all’epoca ogni volta che salivo sul ring dicevo: “’des vado su e fazo una fumera!”. Come dire, brucio tutti».
Bruciasti anche quel primo avversario?
«Il maestro mi urlava di mettere il montante basso, perché l’altro era più alto e spesso scopriva l’addome; io però il montante basso lo usavo poco in palestra, perché quando facevo da sparring a Stefano Zoff lui parava sempre quel colpo e mi rispondeva sul naso… Però lì lo usai e il tipo andò al tappeto. Venne contato a lungo e anche se finì l’incontro in piedi non fu più in grado di portare un attacco».
Hai citato Stefano Zoff, campione del mondo di boxe. Se tutti i tuoi amici diventano campioni del mondo, peccato non esserti stato amico prima...
«E non finisce qui: in palestra c’erano tanti altri bravi atleti, come Willi Mauchigna che vinse il titolo di campione italiano assoluto (cosa mai riuscita né a me né a Zoff), Massimo Caudi e tanti altri. Ma la boxe è così: a un certo punto poco importano i titoli, ma se hai un punteggio alto puoi diventare professionista e lì non guardi più a ciò che hai vinto prima; lì conta solo quello che sarai in grado di fare dopo».
Tu come mai non sei diventato professionista?
«Giunsi al momento della scelta a 25 anni, ma preferii portare avanti l’attività di famiglia, un negozio di frutta e verdura che mi costringeva a levatacce che toglievano ogni energia. Non ho rimpianti, è andata bene anche così».
Nonostante i ripensamenti…
«Quattro anni più tardi provai a rientrare cercando l’ingresso nel professionismo, ma era troppo tardi. Non era giusto guadagnare il punteggio necessario con ragazzi inesperti; allo stesso tempo era difficile trovare altri esperti come me per combattervi contro. Ritornai sui miei passi e passai alla carriera di allenatore. Iniziai ad aiutare il maestro Tricarico, che mi seguì subito dopo Bulian, dalla fine degli anni ‘80. Non mi è mancato nulla: nemmeno la Nazionale militare quando ero sotto naja».
Hai mai combattuto all’estero?
«In Croazia sono più conosciuto che in Italia; inoltre ogni anno abbiamo il gemellaggio con la scuola francese di boxe di Parigi, appuntamento che rispetto anche adesso da allenatore».
Un pugile famoso ma senza titoli, dopo tanti sacrifici, pare una beffa del destino…
«Un pugile non lotta solo contro l’avversario ma anche contro se stesso e la bilancia. Stare nel peso di categoria a volte è un supplizio: dopo gli allenamenti, già di per sé stancanti, mi mettevo addosso coperte e maglioni e mi piazzavo vicino al calorifero per sudare quel po’ di acqua che mi era rimasta nei muscoli. Per combattere la sete bevevo cubetti di ghiaccio, anche quelli pochi. Però le soddisfazioni non sono mai mancate: i complimenti degli avversari, il giudizio dei critici. Rifarei tutto. E poi, in tutta modestia, ho due cose di cui pochi pugili possono vantarsi».
Quali?
«La prima è che non ho mai finito un match anzitempo. Magari ho perso male, magari mi hanno contato, ma non sono mai finito al tappeto e ho sempre sentito la campanella del gong finale. La seconda è che il mio setto nasale è tutto intero».
Il tuo colpo… del drago?
«Il diretto destro, quello che riesce a passare attraverso la guardia dell’avversario cogliendolo di sorpresa. Ma anche con il montante sotto, quello basso diretto a stomaco e fegato, non ero affatto male. E poi le accelerazioni. Ero capace di addormentare un match rallentando il ritmo come una moviola, e poi in un lampo bruciare tutto».
La boxe di adesso ti piace?
«Sì, ma è diversa dai miei tempi; dai guantoni di crine con i lacci che ti tagliavano la faccia alla mancanza assoluta di notizie sull’avversario, era un’altra boxe. Oggi ci sono i guantoni anti-shock, sui quali sono d’accordissimo, e del tuo avversario sai tutto già mesi prima. Guardi i suoi video, sai perfino cosa mangia. Una volta la prima ripresa era quasi tutta di studio, oggi vai dritto al sodo».
Resterai ancora in questo ambiente?
«Penso proprio di sì. Oggi l’attività di allenatore mi riempie di soddisfazioni come allora lo era il combattimento. Con i nostri giovani pugili siamo arrivati a buoni livelli. Ad esempio con Alì Razib, monfalconese by Bangladesh, siamo arrivati alla finale nazionale del guanto d’oro, e abbiamo ottenuto buoni risultati anche con Calogero Galici, Domenico Acquarulo e Michael Fanolla, che fra l’altro è mio nipote, anche se adesso si è un po’ allontanato dal quadrato. E poi sono stato uno dei primi in Italia a prendere il brevetto FIP di aero boxe, la boxe fatta con l’aerobica. Sudare a ritmo di musica e colpi di boxe è divertente e coinvolgente; ho tanti allievi».
So che hai degli appuntamenti rituali…
«La partita a briscola con gli amici al bar Al Viale di Vermegliano, dove ci troviamo, è un appuntamento al quale non posso mancare».
Domanda finale: se ricevessi un’offerta per allenare altrove, magari anche all’estero, lasceresti Ronchi dei Legionari?
«Sì, ma solo per farci ritorno. Ho ancora il ricordo della foto in combattimento che mi fece il fotografo Federico Leban e che tenne in vetrina per mesi nel suo studio. Vincere e non avere nessuno con cui condividere è molto peggio che perdere consolato dagli amici».
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