“Parole, parole, parole, sono solo parole…”: recita così una tra le più celebri canzoni della musica italiana, che ci aiuta ad introdurre l’argomento della comunicazione. Il concetto è ampio, variegato, complesso. Siamo quotidianamente interessati (in alcuni casi, bombardati) da suoni, parole, sensazioni, emozioni, che può capitare di perdere di vista il senso vero della parola e il valore della comunicazione da trasmettere. L’ars retorica, come arte del bel parlare, dona il giusto peso alle parole e agli aspetti che la circondano: tono della voce, gestualità, presenza fisica. La logopedia come educazione alla parola mira a ridurre, se non già superare, i difetti nella comunicazione. Ci sembra un buon punto di partenza per ridurre la complessità e segnare dei confini entro cui muovere il nostro ragionamento, partire dal significato etimologico del termine: comunicazione, dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune, far partecipe.
La comunicazione è un processo costituito da un soggetto che ha intenzione di far sì che il ricevente pensi o faccia qualcosa. E il ricevente è preposto ad ascoltare ciò che gli viene detto? Sono essenzialmente queste le domande su cui vogliamo soffermare la tua attenzione, caro lettore. Come comunichiamo? E perché comunichiamo? Comunichiamo solo a parole o vi sono anche altri modi o altri linguaggi con cui diamo delle informazioni di noi ad altri? Se comunicare vuol dire unire parole in senso compiuto, lo facciamo ponendo attenzione a chi ci sta davanti, al suo bisogno, al contesto, al tempo? Se invece usiamo linguaggi diversi dalla parola, ne siamo consapevoli? Quanto pesano per noi e per gli altri?
Partiamo dall’assioma di base della comunicazione, che prevede un emittente, come la persona che avvia la comunicazione con un messaggio, e un ricevente come colui che accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende. In questo caso, si parla di comunicazione interpersonale. Ma la comunicazione è solo parola? Domanda retorica. Chi di noi ha detto qualcosa con la voce, ma ha espresso qualcosa di diverso con il linguaggio del corpo? I media ci forniscono innumerevoli esempi di ciò, a volte esasperando gli elementi e le situazioni (ad esempio sulle caratterizzazioni tra maschio e femmina), a volte ridicolizzando i soggetti (pensiamo alle imitazioni della classe politica), a volte focalizzando su dettagli e particolari (pensiamo alla serie televisiva Lie to me). Su questo principio si basa la recitazione. Questo concetto è alla base della musica. Tale idea è il fondamento della pratica di selezione del personale. Da ciò prende avvio l’intraprendere o meno un qualsiasi tipo di rapporto (amicale, professionale, di coppia).
Forse il discorso può risultare nebuloso o troppo astratto. Per seguire il filo logico del ragionamento che stiamo cercando di srotolare, proviamo a pensare alle esperienze lavorative di chi, quotidianamente, ha a che fare con persone prive o con ridotte capacità espressive: sono forse rapporti e relazioni basate sulla parola? Sguardo, vicinanza fisica, empatia, sorriso, propensione del corpo all’apertura e così via sono gli ingredienti principali della relazione che portano a costruire un rapporto fondato sulla empatia e sulla sensibilità dell’altro.
Anche in questo caso, come per la parola, un gesto, un movimento, un’intonazione non idonea al luogo, al contesto, al momento può creare una reazione opposta, non prevista. L’attenzione e l’osservazione divengono lo strumento per entrare in empatia con l’altro (ad esempio, a un colloquio di lavoro), per rileggere gli accadimenti diversi dal previsto (ad esempio, la dimenticanza di un servizio), per superare una sconfitta (ad esempio, il non superamento di un esame di ammissione). Allo stesso tempo, l’osservazione facilita nella comunicazione e nella costruzione della relazione verso l’altro.
Questo vale in ogni nostro dialogo. Dobbiamo osservare e ascoltare l’altro (le sue parole, il tono, il corpo, le emozioni) e regolare il nostro linguaggio sul suo, trovando magari altri strumenti per trasferire le nostre conoscenze ed emozioni. Ma se attraverso il nostro modo di comunicare, sotto qualsivoglia forma e strumento scegliamo, esprimiamo qualcosa, perché lo facciamo?
Perché un discorso sia tale occorre un elemento fondamentale: il motivo per farlo. Comunichiamo per trasferire ad un altro o ad un gruppo delle informazioni intese come nozioni, conoscenze, saperi, opinioni, riflessioni. Comunichiamo per capire e per sostenere il nostro posto nel mondo. Comunichiamo per ottenere attenzione, per imporre le nostre idee, per condividere i nostri pensieri, per sostenere argomentazioni, per ottenere ragione e per giustificare certe nostre azioni. Comunichiamo per suscitare emozioni, per ricevere amore, per richiedere attenzione, per soddisfare i nostri bisogni.
Comunichiamo anche per dare nuova forma ai nostri pensieri e, attraverso questa formazione, diamo vita a immagini, rapporti, relazioni, contesti nuovi o rinnovati. Allo stesso tempo, con la comunicazione possiamo creare e distruggere una relazione. Comunichiamo per chiedere e ottenere sicurezza da noi stessi o dagli altri.
In conclusione, abbiamo voluto soffermare l’attenzione sulla comunicazione, senza entrare nel merito della didattica, del modello formale di comunicazione, delle diverse forme di comunicazione così come gli studiosi le hanno codificate. Il nostro scopo è quello di ragionare assieme sulla comunicazione e sul suo valore nel sociale, come contesto in cui ciascuno di noi si trova inserito per definizione. Un contesto complesso, in continua evoluzione, in progressivo cambiamento, frenetico nei tempi. Tolto il cappello dell’emittente e indossato quello del ricevente, come si pone questi nel processo comunicativo? Riprendendo il paradigma della comunicazione, abbiamo definito il ricevente come colui che accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende. Che cosa intendiamo però con il termine “accoglie”? Quale predisposizione presuppone tale termine?
La sostanza di questo ragionamento sta tutta nella chiarezza della differenza tra il sentire e l’ascoltare. Sentire inteso come ricevere un’impressione per mezzo dei sensi; ascoltare come azione di ricezione attiva di un messaggio, collegata al concetto di attenzione. Nella fase dell’ascolto attraverso l’organo di senso dell’orecchio, che è la sede dell’equilibrio e dunque della nostra visione bilanciata del mondo circostante, ci sono la componente fisica e la componente psicologica. La loro connessione e interazione determina l’apprendimento.
Affinché ciò avvenga, però, è necessario che il soggetto sia partecipe e motivato. L’ascolto attivo si basa sull’empatia e sull’accettazione. Esso si fonda sulla creazione di un rapporto positivo, caratterizzato da “un clima in cui una persona possa sentirsi empaticamente compresa” e, comunque, non giudicata. Quando si pratica l’ascolto attivo, invece di porsi con atteggiamenti cosiddetti da “buon osservatore”, cioè impassibili, “neutrali”, sicuri di sé, incuranti delle proprie emozioni e tesi a nascondere e ignorare le proprie reazioni a quanto si ascolta, è più opportuno rendersi disponibili a comprendere realmente ciò che l’altro sta dicendo, mettendo in luce possibili difficoltà di comprensione. Solo in questo modo è davvero possibile comprendere l’altro.
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