Gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso sono stati caratterizzati dallo sviluppo di quelle particolari forme di organizzazione produttiva di cui i distretti industriali hanno rappresentato il fenomeno paradigmatico: la base territoriale e le relazioni anche informali tra imprese e ambiente sociale sono stati tra i fattori chiave del loro sviluppo. Negli ultimi anni, anche prima della crisi finanziaria scoppiata a metà 2007, questi sistemi sono entrati in una fase di turbolenza, evidenziando limiti e rischi che tali configurazioni incorporano in relazione ai mutamenti strutturali dell’economia. Come mai alcune regioni e territori specializzati in determinate industrie non sono state in grado di beneficiare di mercati in crescita o hanno mostrato incapacità nel generare nuove attività che compensassero il declino di settori tradizionali?
La mutata natura congiunturale e strutturale del ciclo economico a livello nazionale ed internazionale, enfatizzata dalla crisi sopravvenuta, ha cambiato le regole del gioco. Da una forma di competitività statica, basata sull’accesso ai mercati ed a risorse localizzate si è passati ad una competizione dinamica basata sulla capacità di governare il cambiamento attraverso nuovi processi di allocazione del capitale e di rinnovamento tecnologico e manageriale. In questo scenario le Piccole e Medie Imprese (PMI) si trovano oggi in una situazione più problematica rispetto al passato. Emergono difficoltà nell’attività di ricerca e sviluppo, difficoltà di accesso al mercato dei capitali e per converso un peso elevato dell’indebitamento a breve, difficoltà nel rinnovamento di competenze per l’aggiornamento ed il miglioramento delle pratiche e degli strumenti di gestione, difficoltà a governare la base di costo. Molte PMI non hanno le dimensioni di soglia minime, collocabili tra 50-100 milioni di euro di fatturato a seconda dei settori di appartenenza, per predisporsi a fronteggiare i veloci cambiamenti in atto: le mancate o ritardate risposte agli stessi rischiano di minarne la sopravvivenza e lo sviluppo.
Sviluppo del territorio e software sociale. In passato l’appartenenza ad un sistema locale (distretto, filiera industriale, ecc.) poteva compensare tali carenze, mentre oggi le PMI hanno difficoltà a trovare sul mercato risorse e soggetti qualificati (enti, istituzioni, banche, società di servizi) che offrano un supporto integrato, pragmatico e attagliato alle loro problematiche operative, gestionali e strategiche. Ma se i veri asset dei sistemi locali e la vera forza di un’economia regionale rimangono la propria capacità di adattarsi, di cambiare comportamenti, di trovare le competenze ed i prodotti per adeguarsi ai cambiamenti economici, quale rilevanza vengono ad assumere nel contesto dei nuovi scenari fattori quali l’ambiente, le reti di relazioni fra gli attori, i servizi che hanno storicamente concorso al loro successo? In altri termini, quale livello e combinazione di consistenza e flussi di risorse materiali ed immateriali determina la possibilità di processi innovativi e quindi la sostenibilità della crescita dei sistemi socio-territoriali?
In tema di ricerca e sviluppo, ad esempio, molti ritengono che l’inserimento delle imprese locali nelle reti esterne, globali, sia efficace almeno quanto la localizzazione nel territorio di strutture di offerta tecnologica. Infatti l’innovazione non è soltanto innovazione tecnologica ma innovazione e sviluppo dei processi manageriali, delle pratiche gestionali, dei meccanismi operativi interni, dei sistemi operativi di interconnessione con clienti, fornitori, partner industriali e finanziari, dei processi di apprendimento delle risorse umane, della governance aziendale. Nei processi di innovazione e sviluppo in questa accezione entrano in gioco elementi quali la strutturazione e circolazione delle informazioni, i processi di apprendimento dinamici ed il loro effetto cumulato, le capacità e le modalità di interazione degli attori privati e pubblici (imprese, servizi finanziari, università, aree di ricerca, servizi avanzati, agenzie per lo sviluppo, pubblica amministrazione), le dotazioni di risorse immateriali, l’incertezza dei comportamenti. L’offerta e la disponibilità di questi fattori è si condizionata dalla dotazione di risorse materiali e infrastrutturali (hardware) a livello territoriale, ma dipende anche dai crescenti livelli di complessità gestionale e sociale che ne limitano lo sviluppo e l’utilizzo mirato da parte delle imprese. Dipende cioè dal loro livello di organizzazione locale, da una sorta di “software sociale” che va sviluppato ed adeguato alle nuove condizioni di contesto per abilitare flussi di relazioni formali ed informali che determinano la riduzione dei costi di transazione e la riduzione di incertezze. E, più in generale, la possibilità di gestire la complessità dei cambiamenti in corso.
L’ esigenza di “politiche industriali soft”. Numerose strozzature oggi presenti su scala locale possono impedire lo sviluppo o la rivitalizzazione di circoli virtuosi di crescita. In questo contesto le politiche industriali tradizionali (politiche per promuovere l’innovazione, la concorrenza, l’attrazione di investimenti, il commercio internazionale) risultano essere armi spuntate, in quanto non efficaci a sviluppare i settori e le filiere dove c’è un vantaggio comparato e le relative ricadute in termini di esternalità positive per il territorio. Nell’ultimo decennio queste politiche hanno prodotto qualche effetto nell’integrazione e consolidamento a monte ed a valle in alcuni settori tradizionali (i più esposti alla low cost competition), senza peraltro ridurne in modo apprezzabile la frammentazione e senza creare solide basi per lo sviluppo in settori innovativi.
Lo sviluppo di nuove aree di vantaggio comparato o semplicemente la rivitalizzazione degli agglomerati esistenti può essere perseguito incentivando integrazioni orizzontali, la condivisione di asset lungo la catena logistica, produttiva e commerciale ed il superamento di modalità di coordinamento interaziendale che ne limitano lo sviluppo e la crescita. Forse è maturo il tempo di introdurre delle “politiche industriali soft”, ovvero di processi basati su approcci cooperativi in cui governi, industria, finanza ed organizzazioni private e pubbliche ai vari livelli possono collaborare per intervenire direttamente sulle criticità che mantengono una bassa produttività nei settori maturi o in quelli innovativi. Così, invece di sussidi all’esportazione, sgravi fiscali o altro, si potrebbero costruire programmi e finanziamenti per i cluster (raggruppamenti) territoriali, migliorando l’allocazione delle risorse pubbliche, aumentando l’offerta di lavoratori qualificati, incoraggiando l’adozione di tecnologie e migliorando regolamentazione e infrastrutture. La presenza di stock di risorse materiali e l’esistenza di flussi tra gli attori oggi non è più condizione sufficiente per uno sviluppo sostenibile e duraturo: è necessario che le risorse ed i flussi fra gli attori raggiungano una certa intensità, qualità ed integrazione affinché si inneschi il processo di formazione di economie esterne.
È questo un aspetto rilevante che richiede di far evolvere il modo di interagire tra operatori, le politiche e gli strumenti di intervento. Tale evoluzione richiede altresì investimenti in sistemi e capacità relazionali, nonché comportamenti caratterizzati da flessibilità e progettualità in grado di svolgere un ruolo di interfaccia e mediazione tra sistemi ed imprese locali da un lato e attori, centri di competenza ed ambienti esterni, sia pubblici che privati, dall’altro. Far funzionare le “politiche industriali soft” è compito più difficile rispetto agli approcci tradizionali. Il loro successo dipende dalla qualità del software sociale (vedere tavola): soprattutto a livello di cluster industriali e territoriali, esso può fare la differenza nel rinnovare le capacità locali di rispondere ai cambiamenti e quindi nel liberare il potenziale di crescita di tali agglomerati.
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