Il trono è la più nobile delle sedie, e se chi disegna tale austera ‘cadrega’ è norvegese purosangue, ma trapiantato da oltre vent’anni in quel di Manzano, accostarci un Troll, i famosi mostriciattoli dalle svariate forme che, si dice, abitano i boschi della penisola scandinava, è un tutt’uno. Stiamo parlando di Jan Sabro, affermato designer ma non solo: da artista poliedrico per antonomasia, recentemente si è dato anche alla scrittura. Scrive in Norvegese, poi tradotto, e la sua opera prima, Angelo Custode, è da qualche mese in libreria. Il giorno del nostro incontro Jan ha da poco compiuto le sessantacinque primavere, ma appare subito chiaro che fra noi due, nonostante la mia classe 1963, il più giovane è lui. Lo si nota dallo sguardo speranzoso, ma anche dal fisico asciutto.
Jan, perché si passa dal design alla scrittura?
«Quando abitavo in Norvegia il mio soprannome era ‘Volkan’, il Vulcano: mi piace cimentarmi in tutti i campi della creatività umana. Sono convinto che se hai talento puoi raggiungere un buon livello in tante discipline; ovviamente ci saranno arti dove eccellerai e altre nelle quali sarai nella media, ma comunque lascerai un segno del tuo estro d’artista».
Allora è stata la sua vulcanicità a spingerla a fare il passo?
«Sono arrivato al mio settimo libro, e scrivo appena dal 2009. La voglia di scrivere si è impossessata di me, come già era successo in passato con la pittura».
Anche pittore?
«La mia serie di quadri risale al 2000, un periodo di intenso lavoro nel quale non riuscivo a soddisfare tutte le richieste che mi venivano fatte. Allora decisi di chiudermi in un mondo di colori, e in soli due mesi realizzai tantissimi quadri. Non dormivo per l’energia che i colori mi davano. Io sono fatto così: lascio venir fuori l’ispirazione, la assecondo sempre, costi quello che costi».
Torniamo alla scrittura…
«La scintilla scoccò in concomitanza con la crisi del mondo industriale. La molla principale che ha fatto scattare la mia penna è la situazione che stiamo vivendo in Italia: una crisi soprattutto di valori e di idee. Non sopporto la gente che si lamenta e basta; bisogna agire. La scrittura educa, e in essa ho riposto la speranza di trasmettere un messaggio che ci faccia scoprire un nuovo modo di vivere».
I libri però bisogna leggerli e il rapporto tra lettori abituali italiani e scandinavi è imbarazzante…
«Purtroppo è vero, ma io ho fiducia nel mio sesto senso. Se scrivessi senza la sensazione che le mie parole possano servire a cambiare la gente, non lo farei; invece sento questo istinto che mi dice di insistere e lo faccio con gioia. Se non rispettassi questa mia facoltà di percepire non sarei diventato quello che sono».
Percepire è dunque la qualità principale di un artista?
«Dovrebbe esserla di tutti coloro che operano in contesti in cui le proprie azioni si ripercuotono su se stessi e sugli altri. Solo così si può disporre di quella lungimiranza che porta a raccogliere buoni frutti. Quando disegnavo abiti di moda in Norvegia li pensavo in veste futura, come poi è successo per le sedie. Se solo i politici facessero altrettanto, se solo si chiedessero l’effetto che produrranno le loro azioni nel futuro, allora vivremmo in un mondo migliore».
Il suo primo libro è autobiografico; la descrizione, oserei dire minuziosa ma brutalmente senza fronzoli, della sua gioventù bruciata dal Lynol, un diluente.
«Infatti il sottotitolo dell’opera è ‘diario di uno sniffatore’. Ora che so il valore vero dell’esistenza, ricordare tutte le volte che la droga mi ha portato vicino alla morte è un messaggio d’amore per la vita. Non so ancora perché non sono morto; forse perché avevo qualcosa da trasmettere».
Ho letto il libro e, se me lo consente, oserei dire che solo una persona eccezionalmente forte può essere sopravvissuta a tanto.
«Sono stato anche fortunato; soprattutto penso che l’universo sia un intreccio di energie che corrono lungo una geometria ben definita. La mia fortuna è di sentire le direzioni da prendere. Quando è stato il momento di smettere con il Lynol, l’ho fatto; ho sentito che era giunta l’ora».
Anche venire in Italia è stata una percezione?
«Assolutamente sì. Ero già stato qui a tentare di mettere in luce il mio talento alla fi ne degli anni Ottanta, ma fu un fiasco colossale. Eppure, due anni più tardi decisi di tornare perché sentivo che il mio destino si sarebbe compiuto proprio a Manzano. E così è stato, anche se non fu facile nemmeno quella volta».
Racconti…
«Avevo pochissimi soldi e presi un appartamento in affitto. Subaffittai una camera a due maghrebini i quali, oltre a non darmi un soldo, mi svuotavano anche sistematicamente il frigo… Non avevo l’auto e giravo per le fabbriche con una bicicletta scassata e con una valigia di legno dove tenevo dentro i modellini delle sedie».
Non proprio una vita da sogno.
«Ero al verde e disperato quando bussai alla porta dell’ultima fabbrica che avevo deciso di visitare. Lì chiesi prima di tutto di bere un bicchiere di vino, ma alla fine scolai l’intera bottiglia per la disperazione. Quindi feci vedere i modellini».
Risultato?
«La ditta mi commissionò tre modelli campione per la Fiera di Genova e da lì partì il mio successo. Sarò per sempre grato a quest’azienda».
Curiosità finale: da buon norvegese è mai stato a Capo Nord?
«Assolutamente no. Quando vivi cinque mesi all’anno nel ghiaccio non vedi l’ora di andare in un posto dove ci sia sole e caldo. Per voi andare a vedere i Fiordi è turismo, ma per uno che ci abita… E poi io mi sento ormai italiano».
Questo e molto altro è Jan Sabro. Un restauratore appassionato di moto giapponesi degli anni ‘60 (delle quali possiede una discreta collezione) e anche un intenditore di musica, come testimoniano le due chitarre che ‘riposano’ sul suo divano.
Lui era un Hippye quando io ero un bambino. Li vedevo con i loro furgoni colorati attraversare il mondo mentre lanciavano il loro messaggio di amore e pace universale. Nei testi di Jan, come del resto nella sua vita, ovviamente in forma più matura, questo messaggio esiste ancora. Nel suo libro Il Vespaio, dove un gruppo di ragazzi prende il potere facendo del bene al prossimo, la prima cosa che i protagonisti fanno è eliminare le mafie.
Ci hanno provato i nostri uomini migliori: Falcone, Borsellino, Cassarà, Petrosino, e tanti altri; possiamo farcela noi? Secondo Jan, sì. Perché come disse il Premio Nobel Wole Soyinka “L’uomo muore in tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia”.
Jan Sabro è nato a Oslo (Norvegia) il 17 gennaio 1948. Diplomatosi nella locale Scuola d’Arte, da diversi anni risiede a Manzano, dove lavora e collabora con le maggiori aziende della zona. I suoi disegni e progetti sono venduti in tutto il mondo: ha vinto numerosi premi, tra cui il “Top Ten” al Salone internazionale della Sedia di Udine, nel 1999 con il modello riportato nell’immagine qui sotto.
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