La prima volta che mi sono trovato ad ammirare una delle opere di Adriano Visintin, una scultura di marmo, mi è venuto in mente un adagio spagnolo che, più o meno, recita così: “Dio gioisce nell’innocenza degli animali, medita fra i colori e i profumi delle piante, dispera negli uomini e riposa nelle pietre (Desespera en el hombre y descansa en la piedra)”.
L’opera era così bella che, davvero, ho sentito in quella pietra un cuore divino. Premessa: non sono un esperto di arte, eppure, quando comincio l’intervista, le prime parole del signor Visintin sono queste: «L’istinto nasce da solo».
La sua storia con la scultura, invece, quando è nata?
«Ho iniziato fi n da bambino, ma non solo con la scultura, anche con la pittura e altro. A 12 anni, da un ciocco di legno che aveva tagliato mio nonno, tirai fuori la mia prima scultura antropomorfa. Ma era tutto limitato al piacere della scoperta. È vero che la vocazione è una innata esigenza di realizzare quella cosa, ma ancora non lo sapevo. È altrettanto chiaro che ‘chi non cerca non trova’, e la ricerca dell’arte non è condizionata dal limite di tempo, ma dura per tutta una vita».
Quindi è nato tutto per caso?
«In realtà l’input determinante lo ebbi a scuola quando venne a insegnarci un giovane professore che aveva nuove idee che mi colpirono molto. Da lì la decisione di iscrivermi all’istituto d’arte».
E dopo gli studi?
«Ho avuto il mio periodo di ricerca del lavoro, passando anche attraverso concorsi pubblici, in uno dei quali ho dovuto disegnare una mappa al contrario semplicemente guardandola… Ho lavorato anche come designer. Poi mi sono dedicato all’artigianato, specializzandomi nel restauro».
La carriera di artista puro com’è iniziata?
«Non c’è stato un momento preciso. Sono dell’idea che l’arte non si può limitare alla sola comprensione di una tecnica, ma ha bisogno di una ricerca della conoscenza a tutto tondo. Solo la conoscenza può permettere di essere innovativi rispetto a ciò che c’era prima. Tuttavia, se parliamo della scultura, direi che le mie origini risalgono al periodo in cui ho frequentato la Toscana».
I nativi americani dicono che le pietre sono ‘il popolo dei nonni’, ovvero i testimoni degli eventi dei tempi passati…
«Mi piace questa idea. C’era un critico, il mio amico Alain Jones, il quale mi disse che la parola per tramandarsi muta, cambia, mentre la pietra rimane tale. In effetti, per quanto possa sembrare dura, asettica, offre un contatto profondo. Forse è per la solidità che trasmette, quella solidità che dà l’idea di fermare il tempo. La pietra ha un’anima».
Che genere di anima?
«Tutti i materiali prendono un po’ dell’anima di chi li lavora, come se si crescesse insieme. Quando gli artisti dicono che le opere sono già dentro il materiale e che noi non facciamo altro che tirar via ciò che le copre, è vero. Noi abbiamo solo il talento di vederla, quell’anima; e non dimentichiamo che parliamo di arti visive, dove si comunica per immagini, le parole sono superflue o, tutt’al più, servono a chiarire le emozioni che si provano».
Cosa intende per arte visiva?
«L’arte visiva deve riuscire a creare una relazione fra chi osserva e la forma dell’opera. Stabilito questo contatto l’opera riesce a creare delle emozioni nell’osservatore; emozioni che a loro volta possono suscitare ricordi o creare nuove storie».
Ha detto che tutto è nato dalla sua esperienza in Toscana. Come mai se ne è andato da là?
«In realtà ho soggiornato laggiù per diversi periodi, anche lunghi, ma ai quali seguiva sempre un ritorno che mi appagava molto di più che restare lì. E devo dire che la scelta mi ha ripagato. Considero la mia mostra antologica tenutasi al Salone degli Incanti di Trieste, nel 2008, il grande riconoscimento che la mia terra e i miei corregionali mi hanno dato».
Maestro, realizzare la propria arte può diventare felicità?
«Io penso che la felicità non sia un concetto di questo mondo; è già tanto se puoi fare. A me piace molto la Callas, e lei diceva che noi artisti siamo solo un tramite».
Le sue opere sono fatte nei materiali più disparati: dalla plastica, all’acciaio, al legno, e pesano dalle tonnellate ai pochi grammi. Ha mai avuto paura di non farcela?
«Paura no, mai. Che abbia dovuto lottare per ottenere il risultato, quello sempre».
Immagino in particolare con le opere che hanno richiesto mesi di lavoro…
«La dimensione temporale è parte integrante dell’opera. Un lavoro non comincia e finisce immediatamente, ma richiede un suo percorso e una sua maturazione, durante i quali ci sono degli spazi che vanno compresi e rispettati».
Il concetto che Dio riposi nella materia... Argomento più profano: so che ha una piccola collezione di moto da cross degli anni ’70.
«Questa passione è nata per colpa di mio figlio Lorenzo. Quando mi ha chiesto il motorino ne ha voluto uno da cross. Ricordare la felicità che mi dava, alla sua età, saltare l’argine del fiume, mi ha fatto venire voglia di cimentarmi nel restauro di moto della mia… epoca».
Quindi anche lei è stato uno ‘scavezzacollo’. Dica la verità, ha mai saltato un appuntamento d’amore per la passione dell’arte o viceversa?
«Non è mai successo nulla del genere perché la mia vita non è mai stata fatta da episodi separati, ma è stato sempre un continuo. L’arte non mi ha mai precluso nulla, e nemmeno l’avere una famiglia è mai stato un limite all’arte».
Ha un rammarico?
«Un piccolo rammarico c’è: non aver mai avuto un maestro e nemmeno un discepolo».
E un sogno?
«Il sogno nel cassetto è un sogno collettivo: vorrei che questa crisi finisse al più presto così da potermi immergere in nuovi progetti. Zarathustra quando si svegliava al mattino diceva: “O Sole, tu sei l’astro grandissimo che dà la vita, ma se non ci fossi io, nella mia piccolezza, ad ammirarti, che valore avresti?”».
Su questa battuta, che lancia un segnale di speranza per tutti noi, e allo stesso tempo pone un grande spunto di riflessione, chiudiamo l’intervista. Il maestro mi invita a scendere nel suo laboratorio dove fanno bella mostra di sé anche tutte le moto da lui restaurate. C’è anche la mitica Ancillotti, il mio sogno di ragazzo. Ci soffermiamo sul monumentale prototipo della scultura fatta per il Museo dei Campionissimi di Novi Ligure, dedicato a Coppi e Girardengo, dove tra l’altro hanno tenuto una mostra delle sue opere. La scultura è una bici ‘stilizzata’, dalle forme che catturano dapprima l’occhio e poi tutta l’essenza dell’osservatore.
Mentre la ammiro, il maestro si avvicina: «Quest’opera esprime al meglio il concetto Zen: la ruota come soggetto e protagonista, devoluta al movimento, quindi asservita all’uomo, diventa veloce, sempre più veloce, così veloce da avviluppare la presenza umana dentro di sé e da portarla negli angoli sperduti dell’universo».
Questa è l’arte di Adriano Visintin. Un’arte universale.
Adriano Visintin è nato a Sagrado il 4 dicembre 1955. Compiuti gli studi artistici, già dal ‘74 inizia l’attività espositiva, partecipando a numerose manifestazioni ed esposizioni internazionali. Le sue opere sono acquisite da Civici Musei, Gallerie d’Arte Contemporanea, Parchi di Scultura, collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero. Attualmente l’artista vive e opera a Villesse.
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