Da Duino a Padova: il mito di Antenore
A Padova, nella seconda metà del Duecento, è attivo un gruppo di notabili accomunati dalla passione per la letteratura latina. Non è una novità nel Medioevo: nuovi, però, sono autori e opere di riferimento. Non solo il ‘solito’ Cicerone, ma anche Orazio, Catullo, Properzio, Ovidio: questi pionieri del Rinascimento si riappropriano di una cultura dimenticata da secoli. Cos’è successo? Per rispondere, bisogna ricordare che prima d’allora i libri erano merce rara: chi voleva leggerne alcuni doveva entrare nei monasteri. Erano, quelli, gli ultimi secoli eroici in cui la cultura antica veniva salvata grazie agli amanuensi, ma per la divulgazione occorreva che si creassero condizioni sociali, economiche e politiche nuove. Proprio come nella Padova di fi ne Duecento: una città di commerci, fiorente artigianato e prestigiose università. Qui iniziano finalmente a circolare libri, in quantità mai viste prima. E così, quando nel 1274 viene rinvenuta un’arca funeraria contenente resti umani con una spada e delle monete d’oro, il giudice Lovato Lovati non esita a riconoscervi il sepolcro del mitico fondatore di Padova: Antenore, fuggito da Troia in fiamme e sbarcato presso il Timavo. L’eco è enorme e sancisce una primavera culturale inarrestabile, che dilaga in tutta Italia e pochi decenni dopo trova in Francesco Petrarca il suo interprete più grande. Con lui nasce una generazione di intellettuali a caccia di manoscritti antichi: furono chiamati umanisti per i loro studi filologici, definiti studia humanitatis.
Le accademie di Spilimbergo e Pordenone
20 agosto 1341: davanti al notaio Nicolussio, il signore di Spilimbergo Bartolomeo sottoscrive un documento in cui s’impegna a pagare un maestro di ars grammatica e a garantire una sede adeguata per i suoi corsi aperti a tutta la cittadinanza. Due i gradi di istruzione: superiore, per chi intende imparare il latino; inferiore, per chi vuole limitarsi a leggere e scrivere; il maestro, inoltre, è tenuto a dare lezioni anche ai ragazzi poveri. È dunque nel segno della liberalità che nasce l’accademia di Spilimbergo, rifondata due secoli dopo sotto la guida di Bernardino Partenio, dal 1538 al 1543, e ospitata a palazzo Valbruna. L’insegnamento di Partenio prevedeva latino, greco e persino ebraico, caso unico in Italia.
La stessa sete di letteratura animava anche la città di Pordenone: ne è una prova Palazzo Ricchieri, oggi sede del Museo Civico. Al primo piano, una stanza presenta affreschi ispirati alle storie di Tristano e Isotta (inizi sec. XV), mentre nelle vetrine sono conservate un centinaio di cantinelle, tavolette di legno collocate originariamente come intertravi da soffitto. Ogni tavoletta illustra, come in un simpatico fumetto, scene d’amore, di duello, di caccia, di vita sociale, ma anche unicorni, draghi e serpenti volanti. Il dibattito fra gli studiosi è aperto, ma ci piace pensare che queste cantinelle raccontino una sola storia tratta da un’unica opera letteraria: come in un puzzle, si tratterebbe solo di riordinare le scene nel modo giusto...
Palazzo Mantica, esattamente di fronte, ci racconta invece un’altra storia, grazie a una lapide in latino murata sulla facciata. Si tratta di una poesia In lode della vetustissima origine dei Mantica: «Tu che noterai i versi endecasillabi / del rude poeta Cimbriaco, ne riderai - è lecito! - / e li prenderai in giro fi no a quando saprai / che questa casa è dei giovani Mantica, / di un’ospitalità che si rinnova così / da poter commuovere l’irsuto Trhasea. / Non sono genti indigene della vecchia Pordenone, / ma vecchi coloni di Como Nuova, / e la discendenza di Manto che svela gli oracoli / da cui il nome dei nobili Mantica. / Se qualcuno reclama di vedere una prova, / risalga agli annali antichissimi. // Quinzio Emiliano Cimbriaco, 15 marzo 1489».
Il Quinzio Emiliano Cimbriaco autore della poesia epigrafica fu intellettuale di prestigio, insegnante di grammatica greca e latina e animatore di un circolo umanistico ospitato appunto nel palazzo della famiglia Mantica, originaria di Como. In greco, ‘mantica’ è l’arte della divinazione: occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata dalla famiglia lombarda, che nobilitò la sua genealogia facendola discendere dalla mitica Manto, profetessa dell’oracolo di Delfi e fi glia dell’indovino Tiresia, che forse è il vero personaggio celato dietro il bizzarro ‘Trhasea’. Se così fosse, si spiegherebbe il passaggio ironico - il lettore è avvertito da subito che riderà di questi versi - sull’ospitalità dei Mantica «che si rinnova », tanto da far commuovere «l’irsuto» Tiresia: il verbo latino è vernere, che oltre a ‘rinnovarsi’ significa ‘cambiare pelle’. Ora, secondo la mitologia, Tiresia fu trasformato in femmina dopo aver percosso due serpenti in amore, quindi tornò maschio molti anni dopo battendo con la stessa verga i medesimi serpenti; Dante, raccontando l’episodio in Inferno XX 40-45, ne parla proprio nei termini di un ritorno alla ‘peluria’ maschile, al suo ‘irsutismo’: «Vedi Tiresia, che mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne, / cangiandosi le membra tutte quante; / e prima, poi, ribatter li convenne / li duo serpenti avvolti, con la verga / che riavesse le maschili penne».
Pordenone entra nel ‘500 come oggetto di aspra contesa fra la Serenissima e gli Asburgo: avrà la meglio Venezia, grazie al suo condottiero Bartolomeo d’Alviano, uomo d’armi ma anche di lettere, se è vero che nel 1508 fondò, nel castello cittadino, l’Accademia Liviana. Essa ospitò grandi nomi, da Pietro Bembo al medico Girolamo Fracastoro, amico di Copernico, nonché il grandissimo pittore Giovanni Antonio de Sacchis, passato alla storia come ‘il Pordenone’. Sua è la Pala della Misericordia all’interno del duomo cittadino, nella quale si vede, sullo sfondo, il castello che ospitava l’Accademia: spiace pensare che oggi sia ridotto a carcere.
La Trieste di Enea Silvio Piccolomini
Ma prima che a Pordenone fi orisse l’Umanesimo, nel 1447 a Trieste arrivò in qualità di vescovo una fi gura di rilievo internazionale: Enea Silvio Piccolomini, che divenne papa nel 1458 con il nome di Pio II, coltissimo letterato dai gusti tutt’altro che castigati (in gioventù scrisse un poemetto erotico e la sua opera più importante è il romanzo sentimentale Historia de duobus amantibus). Rimase in città fi no al 1450, ma ne segnò l’identità in maniera indelebile: oggi, Trieste ne rinnova la memoria grazie al Museo Petrarchesco Piccolomineo, che ospita la straordinaria collezione di libri e opere d’arte raccolta nell’Ottocento dal conte Domenico Rossetti riguardante appunto Piccolomini e Francesco Petrarca. 121 incunaboli, 1.130 libri a stampa dal ‘500 al ‘700, 79 manoscritti dal XIV al XVI sec., bolle e lettere autografe del Piccolomini, 29 dipinti, un busto femminile scolpito da Mino di Fiesole, stampe antiche: il museo custodisce tesori unici, fra cui i magnifici cassoni nuziali decorati nel Quattrocento con scene tratte dai Trionfi di Petrarca.
Guarnerio d’Artegna e la Biblioteca Guarneriana di San Daniele
San Daniele è famosa per il suo strepitoso prosciutto; pochi, però, sanno che la città ospita un centro di cultura d’importanza mondiale. Ne è padre nobile l’umanista Guarnerio d’Artegna (1410 - 1466), che lasciò in dono alla città di cui era stato vicario patriarcale un patrimonio di 160 manoscritti, quasi esclusivamente latini: per accoglierli venne fondata, nel 1466, la Biblioteca Guarneriana. A questo nucleo si aggiunse l’enorme lascito dell’arcivescovo Giusto Fontanini nel Settecento. Oggi, questo scrigno conserva 600 codici, 84 incunaboli, 700 cinquecentine e migliaia di preziosi volumi: in totale, 12.000 libri antichi.
La sezione antica ha da poco riaperto i battenti dopo i restauri e il nuovo direttore, professor Angelo Floramo, mi ha accolto per una visita speciale, mostrandomi alcuni codici di valore inestimabile. Colpisce, su tutti, un volume contenente le massime di Pietro Lombardo (fi ne teologo del XII sec.), che presenta un corredo di miniature che dialogano con il contenuto del testo stesso: centauri, pesci, unicorni e uomini dalle forme più strane creano un vero e proprio bestiario ancora tutto da decifrare. Un altro codice riporta invece l’opera di Cicerone: a margine, si vedono ancora le annotazioni volute da Guarnerio in persona per spiegare alcuni punti del testo. Incantevole il manoscritto n. 200, contenente l’Inferno di Dante e, tutto intorno al testo, il commento del figlio Jacopo all’opera del padre (per la cronaca: Dante ebbe quattro fi gli...). Ed è bellissimo scoprire che la miniatura introduttiva raffi gura, di fatto a pochissimi anni dalla sua morte, il sommo poeta esattamente come noi lo immaginiamo: veste rossa, cappuccio con pendagli, naso adunco. L’infilata di meraviglie continua con un manoscritto musicale del XIII sec., ma il pezzo forte arriva alla fi ne: davanti ai miei occhi, il professor Floramo sfoglia la leggendaria Bibbia Bizantina. Miniature sublimi, colori accesi con abbondanza di ori e di porpore, scrittura elegante: è un esemplare di lusso la cui origine è oggetto di discussione fra gli studiosi. L’ipotesi più accreditata, per una volta, è anche la più suggestiva: la Bibbia sarebbe stata trascritta a Gerusalemme prima del 1178, arrivata in Italia tramite i Templari di ritorno dalle Crociate, quindi giunta due secoli dopo nelle mani del cardinal Panciera e da lì al suo vicario Guarnerio. Dal Medio Oriente a San Daniele, dopo aver attraversato deserti, mari, fi umi e montagne, dopo aver visto 1.000 anni di vicende umane, questo gioiello testimonia che la vera cultura non ha confini. Una coscienza che era ben chiara a chi, in quel periodo esaltante che fu il Rinascimento, rese l’Italia il faro della civiltà.
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