Individualismo e relativismo, secondo i sociologi, sono i fenomeni che rischiano di affossare il futuro delle giovani generazioni. Come invertire la rotta? Riscoprendo il valore della prima arma pedagogica a nostra disposizione: quella del (buon) esempio.
Tra le caratteristiche più marcate del contesto socio-culturale in cui viviamo, un ruolo di primo piano è sicuramente rivestito dalla spinta all’individualizzazione. In altri termini tutto sembra centrato sull’individuo e su ciò cui egli dà valore a seconda dei momenti che si trova a vivere. Il desiderio del momento spesso viene di fatto considerato un diritto e un criterio di valutazione dell’agire.
Un esempio lampante sono i legami interindividuali e sociali che appaiono incredibilmente deboli e di scarsa tenuta. Di converso, a lato di questa evidenza empirica vi è la percezione generale di un bisogno crescente di rapporti significativi.
Il fenomeno è non solo sotto gli occhi di tutti ma è anche universalmente riconosciuto e considerato problematico. Le sue radici vanno probabilmente collocate agli esordi della modernità, con la scoperta del soggetto e della sua coscienza. Con Cartesio nasce un filone di pensiero che conduce all’assolutizzazione dell’individuo e della sua libertà. Il vero, il giusto e il bello non sono più oggettivamente tali, ma dipendono dall’intenzionalità del soggetto. È plausibile solo ciò che il singolo ritiene tale.
La fiducia totale nella possibilità del singolo trova espressione politica e sociale nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. La fiducia totale nella scienza, nella nazione, nella propria capacità di pensare e cambiare il mondo produce totalitarismi di cui conosciamo bene gli epigoni. Tra gli esiti della fiducia conclamata vi è poi in ultima analisi il suo opposto, la sfiducia totale. Dall’assolutizzazione dell’individuo e della razionalità si passa alla sua totale relativizzazione. Tutto è relativo al soggetto e alla sua coscienza.
L’attuale clima culturale prevede che non soltanto tutto sia relativo al singolo uomo ma che ogni cosa dipenda dal singolo momento che quell’uomo vive. Tutto non solo è relativo ma soprattutto reversibile e interscambiabile.
La ragione non è più in grado di conoscere il vero e distinguere il bene dal male.
È chiaro che questo processo non è passato solamente attraverso le riflessioni di qualche filosofo, ma ha trovato espressione – ed è qui che ha acquisito la propria forza – in forme politiche, economiche e sociali. Noi uomini siamo fatti di pensiero, di simboli, di riti, di miti, di concretezza spicciola. È in tutto questo che l’individualizzazione si è fatta strada e ha trovato forza espressiva ed espansiva.
La crisi economica scoppiata nel 2007 non è altro che un epifenomeno di tutto questo e di altro ancora. La finanza che produce finanza senza base economica è l’impazzimento dell’impulso al possesso che diventa fine e che punta esclusivamente all’autoriproduzione. Il produrre debito a scapito delle generazioni successive incarna il principio per cui ciascuno è indipendente da tutto e da tutti e risponde soltanto a sé.
Il risultato è che il sistema socio-economico e politico – così come in prevalenza finora lo abbiamo conosciuto nel mondo occidentale – non tiene più. Non tiene non solo perché è scoppiata la bolla finanziaria e non abbiamo più soldi, ma soprattutto perché risponde sempre meno a quelli che sono i veri bisogni di noi uomini e rispetta e rispecchia sempre meno le leggi interne alla realtà.
Non solo. Il risultato è che le nuove generazioni fanno difficoltà a mantenere gli impegni e non sanno cosa voglia dire lottare per ottenere dei risultati. Gli alibi si leggono in frasi simili a “non mi piace”, oppure “sono fatto così”, “non ci posso fare niente”, “non riesco”. Oppure “l’ho fatto perché mi piaceva”, “è quello che adesso mi va di fare”. Questo si verifica nello studio, nel lavoro, nei rapporti umani. Il valore di ogni cosa sembra connettersi al piacere del momento.
La realtà, però, è di tutt’altro avviso e richiede tutt’altro atteggiamento. La realtà ha le proprie regole e ne esige il rispetto. Il datore di lavoro esige puntualità e impegno. L’allenatore richiede tre o quattro allenamenti a settimana. Per imparare qualunque materia scolastica o diventare capaci in qualunque mestiere sono necessarie la dedizione e la costanza. L’amicizia esige di essere accudita, altrimenti non matura e tende a svanire. Anche i rapporti effettivi hanno le loro regole.
Di fronte a tutto questo che fare? Sicuramente intervenire su livelli diversi. Vi è un piano culturale, dove è necessario riscoprire un’idea alta e positiva di persona e società. Vi è poi un piano politico e istituzionale, dove è necessario il riscatto simbolico ed effettuale del vero senso del fare politica. Perché sondaggi e ricerche alla mano, ormai nessuno crede più nelle forme di rappresentanza politica o sindacale.
Vi è quindi un piano simbolico molto più generale da recuperare. Bisogna ridefinire i riti e i miti che ci dicono chi è l’uomo, di cosa ha bisogno, da dove viene e dove va. I riti e i simboli di oggi li troviamo, lo dicono i sociologi, nei centri commerciali, assurti da “non luoghi” a “iperluoghi”, oppure nei reality, spazi in cui la finzione ha soppiantato la realtà.
Infine e soprattutto vi è il piano della concretezza educativa quotidiana. Il fatto educativo è fortemente pratico e si snoda lungo le pieghe dell’ordinarietà. L’educazione è fatta di accoglienza e di regole, di valorizzazione dell’altro e della sua creatività come dell’affermazione dell’autorità degli adulti. Autorità è parola ritenuta perlopiù scandalosa. In realtà vuol dire “ciò che fa crescere”. Nella concretezza vuol dire che ciascuno e tutti si devono ritenere oggettivamente impegnati nei diversi processi educativi. Non solo. Anche chi educa deve rivedere sì il proprio modo di educare ma ancor prima la visione del mondo che lo anima. Educare significa far sviluppare le capacità ma anche proporre concretamente una visione etica adeguata al reale. Per questo gli adulti devono riscoprire una reale e sostanziale coerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno, devono reimparare a gestire i rapporti educativi con autorità e autorevolezza, a fare lo sforzo di partecipare alla res publica, a fare volontariato, a impegnarsi per ciò che davvero ha valore, indipendentemente dalla convenienza immediata. È innanzitutto attraverso la concretezza delle azioni quotidiane che passa l’educazione. È l’esempio la prima arma pedagogica.
Educare al senso del dovere e al bene relazionale come bene comune oggettivo oggi è più che mai decisivo. Educare a una corretta e fattuale attribuzione di giuste priorità tra i beni è più che mai indispensabile. Fuori da una logica responsabilizzante non si dà educazione. E questo processo deve riguardare tutti, nessuno escluso. E deve prendere avvio da una conversione alla responsabilità da parte degli adulti.
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