L’aggiornamento congiunturale di Bankitalia dello scorso mese di novembre sull’economia del Friuli Venezia Giulia ha sintetizzato asetticamente ciò che i cittadini, le famiglie e le imprese vivono nel loro quotidiano. L’economia regionale, fatta di piccole e medie imprese (PMI) e di pubblica amministrazione, risente in questo momento, con un ritardo temporale di un anno (anche di due anni a seconda dei settori), di ciò che è già avvenuto in altre regioni italiane ed europee e che minaccia di perdurare per un altro biennio.
L’andamento del FVG ha le sue peculiarità, ma riflette andamenti comuni ad altre regioni europee, non solo mediterranee, che offrono lo spunto per considerazioni di carattere più generale. Le prospettive purtroppo non consentono facili ottimismi, né della ragione né della volontà, in quanto le cause sono di ordine macroeconomico e istituzionale, di ordine politico e culturale.
I programmi di risanamento: gli errori delle istituzioni
I programmi di risanamento di bilancio in corso nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea nelle attuali circostanze economiche e l’impatto negativo di questi programmi sulla crescita sono così pesanti che l’impatto sul rapporto debito/PIL è perverso, provocandone l’aumento anziché la diminuzione. Le politiche fi scali restrittive in tempi “normali” di ciclo economico recessivo sono accompagnate da un rilassamento della politica monetaria che provoca una diminuzione dei tassi di interesse, stimolando gli investimenti e compensando in parte gli effetti della contrazione fi scale.
Questo meccanismo è chiamato moltiplicatore fiscale: in tempi recessivi normali il moltiplicatore (negativo) è inferiore a 1, ovvero a un aumento della pressione fiscale pari all’1% ci si attende una diminuzione del PIL inferiore all’1%.
Con grande stupore degli artefici delle politiche di austerità tale moltiplicatore (negativo) si è rivelato essere superiore a 1, addirittura compreso tra 1 e 2. Era tuttavia prevedibile che con i tassi di interesse già a livelli eccezionalmente bassi, un ulteriore inasprimento della politica fi scale non potesse essere compensato dalla politica monetaria espansiva, dato il permanere di elevati premi per il rischio collegati a un contesto di grande incertezza e di maggiori probabilità di fallimento.
Il ritornello che questa non è una crisi analoga a quella di una recessione “normale”, ma che ci troviamo di fronte a una vera e propria mutazione economico-sociale, sembra non trovare ascolto e comprensione da parte degli attori delle politiche economiche.
In un prolungato periodo di depressione economica, quando la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro sono elevati, una maggiore percentuale di famiglie e imprese soffrono di una maggiore riduzione del reddito disponibile e della liquidità.
E con tutti i Paesi europei impegnati contemporaneamente in programmi di consolidamento fiscale, l’impatto in ciascuno di loro è maggiore non solo in relazione al consolidamento fiscale nazionale e regionale (patto di stabilità interno, ecc.), ma anche in relazione a quello degli altri Paesi (attraverso i legami commerciali, da cui deriva la diminuzione delle esportazioni in particolare nei settori più maturi).
Nell’Unione europea le ricadute negative di tali programmi rischiano di essere di grandi dimensioni, in particolare sulla crescita.
Le difficoltà della politica
Ciò non implica tuttavia che i governi nazionali e locali debbano continuare a finanziare il deficit monetizzandolo con denaro preso in prestito in attesa di equilibrare i loro bilanci grazie a speranze riposte in una crescita che rafforzi il tessuto economico, ma che non si vede all’orizzonte. Ci sono infatti diverse modalità possibili per ridurre il deficit stimolando la crescita. Rischiando di incorrere in una eccessiva semplificazione, le opzioni si possono ricondurre a due macro scelte: aumentare le tasse o tagliare i costi.
Al riguardo c’è una grande confusione, alimentata dal vero problema sottostante: è più facile aumentare le tasse con un tratto di penna che ridurre la spesa pubblica corrente, non solo a motivo delle necessarie riforme e ristrutturazioni dell’assetto e del funzionamento della pubblica amministrazione ai vari livelli, ma soprattutto per l’inadeguatezza della classe politica e dirigente. L’evidenza empirica è tuttavia chiara: quando i governi tentano di ridurre i deficit aumentando le tasse, nella stragrande maggioranza dei casi storicamente verificatisi si è assistito a profonde e prolungate recessioni. Ma quando i governi attaccano i deficit tagliando la spesa, i risultati sono molto diversi. In presenza di tagli di spesa qualche altro componente della domanda aggregata deve necessariamente essere in aumento per compensarne gli impatti recessivi. Questa componente è rappresentata dagli investimenti privati che aumentano (ed eventualmente anche i consumi) perché si liberano risorse e c’è meno incertezza sul futuro della politica fiscale e di bilancio. Dopo le manovre fi scali (più tasse) per ridurre i disavanzi, l’accumulazione di capitale invece è sempre scesa.
Un argomento che va altresì smontato è quello dei tagli che impoverirebbero ulteriormente le fasce di popolazione meno abbienti. In Italia ciò non è necessariamente vero in quanto la dimensione del settore pubblico è così ampia e allo stesso tempo inefficiente e dispendiosa che si può certamente spendere meno senza compromettere i servizi di base e danneggiare i più vulnerabili. Certo, se si dimezza tout court il serbatoio di un’automobile Euro1, senza cambiarne assetto, motore, a parità di prestazioni si dimezzano i chilometri di percorrenza, mantenendo elevati i livelli di inquinamento. Fuor di metafora, quando si tagliano i costi bisogna innovare le strutture e le modalità di funzionamento delle stesse anche radicalmente onde mantenere, ma anche migliorare, i livelli di prestazione e di servizio. I tagli di spesa infatti sono spesso solo una parte di un pacchetto di riforme più ampio che include, tra le altre, misure pro-crescita.
Queste considerazioni non dimostrano che il taglio della spesa pubblica porta sempre a una immediata ripresa dell’economia. Piuttosto, vogliono sostenere che i tagli alla spesa sono molto meno costosi per l’economia di aumenti delle tasse e che una politica di tagli alla spesa, abbinata a politiche a favore della crescita, può recuperare completamente l’effetto depressivo di breve periodo.
In Italia tagliare la spesa non è facile, come dimostrano anche gli esiti della recente spending review: i destinatari di protezioni sociali, sussidi e agevolazioni pubbliche - pubblici dipendenti a tutti i livelli, aziende e enti pubblici, governi locali senza disciplina di bilancio, e così via - sono ben rappresentati in campo politico, mentre gli altri contribuenti lo sono molto meno, pur rappresentando la stragrande maggioranza della base fi scale.
Il deficit culturale
I programmi di risanamento basati prevalentemente sulla leva fi scale si stanno dimostrando controproducenti, generando circoli viziosi che in molti Paesi e regioni mettono in serio pericolo la sostenibilità economica e la tenuta del tessuto sociale.
Ma allora perché non si intraprendono strade diverse? Il Premio Nobel Amartya Sen sostiene che il fine dello sviluppo, il suo vero scopo, è lo sviluppo umano, ovvero lo sviluppo delle capacità di acquisire le abilità che consentono percorsi di vita almeno rispettosi della dignità umana.
Il diffuso utilizzo di teorie, modelli e metriche quantitative non rende conto dello sviluppo delle esistenze umane e delle relative priorità in maniera accurata e articolata. Purtroppo questi approcci hanno un potere enorme ed esercitano una grossa influenza non solo sugli organismi internazionali, ma anche sulle politiche e sulle priorità interne alle singole realtà nazionali e regionali: si stanno perseguendo obiettivi di crescita e modalità di uscita dalla crisi destinati a compromettere gli impegni che una classe dirigente avveduta e lungimirante dovrebbe avere nei confronti della gente.
L’utilizzo di approcci obsoleti e incompleti, in buona o mala fede, spiega soltanto una parte degli errori che si stanno commettendo. Questi modi di vedere, interpretare e normare le dimensioni economiche e sociali sono radicati nei modi di pensare e nei comportamenti di larga parte delle classi dirigenti e, per induzione, della nostra gente.
Le mutazioni e i cambiamenti socio-economici si realizzano storicamente da spinte che vengono dall’alto e dal basso. Ma la responsabilità chiave in queste trasformazioni, come agente di cambiamento, risiede nelle classi dirigenti e nella loro capacità di leadership (visione, autorevolezza, coinvolgimento, motivazione) per creare nuove condizioni di contesto e nuove competenze per affrontarle.
Almeno tre cambiamenti “culturali” risulterebbero a ciò funzionali:
- gli economisti dovrebbero confrontarsi e dialogare in modo sistematico e approfondito con i filosofi, i sociologi, i politologi, gli psicologi e gli scienziati della natura;
- i politici, gli altri attori e gli operatori economici che intervengono concretamente nella organizzazione e nella creazione dello sviluppo dovrebbero contribuire fattivamente a tale confronto e dialogo, per arricchire e aggiornare continuamente le
politiche pubbliche e gli interventi concreti per lo sviluppo;
- i più anziani dovrebbero dare maggiore spazio ai giovani, non solo in ambito lavorativo, mettendosi in posizione di ascolto rispetto a un mondo pieno di vitalità e fermenti, favorendone la visibilità e l’introduzione nella società.
In tempi di elezioni politiche (europee, nazionali, regionali, in generale di amministratori della cosa pubblica) dovremmo poter riconoscere nei candidati alla leadership alcuni di questi comportamenti e attitudini (a monte dei programmi di legislatura). Pena l’ulteriore deteriorarsi della qualità e delle prospettive di vita, nostre e delle future generazioni.
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