È un’esperienza abbastanza comune fare dei buoni propositi per migliorare la qualità della propria vita, per curare qualche disturbo di salute o per conseguire qualche ambito obiettivo lavorativo o di studio.
Come abbiamo visto nello scorso articolo, talora questi propositi non riescono a concretizzarsi così come l’immaginazione li delinea: oltre a possibili impedimenti oggettivi contingenti, intervengono spesso delle turbative psicologiche che di fatto impediscono l’avvio o il mantenimento della sequenza coerente di comportamenti che consentirebbe il conseguimento dell’obiettivo desiderato (es.: non inizio dieta e movimento per ottenere il dimagrimento).
Abbiamo già appurato che la forza dell’utilità per la persona non è un valore assoluto, ma compete con altri bisogni individuali dei quali di solito non siamo affatto consapevoli. In sostanza, quando ad esempio abbiamo una malattia che richieda cure strutturate e prolungate nel tempo, il prevalente bisogno di cura e guarigione va considerato contingente, cioè riferito alla situazione attuale, al “qui ed ora”, e dovrebbe essere preminente a livello di coscienza.
Silente, in ognuno di noi, esiste però sempre il bisogno di riconoscimento, il più atavico dei bisogni presente in ogni cucciolo di ciascuna specie animale. Questo è il bisogno che ci lega in modo biologico e psicologico alla vita, o meglio, alla tenace voglia di vivere: fin dalla nascita sappiamo di esistere e di valere proprio perché qualcuno “ci riconosce” . Ovviamente questo compito spetta primariamente alla madre e all’entourage familiare.
Proprio da un inconsapevole conflitto tra questi due bisogni, uno attuale ed uno arcaico, può nascere il blocco comportamentale che ci impedisce di iniziare e concludere un personale programma in qualunque campo: salute, lavoro, studio, relazioni, creatività. Ma in cosa consiste effettivamente il conflitto interiore?
In situazione di una percezione soggettiva di carenza di riconoscimento, ognuno di noi è inconsciamente orientato a ricercare… riconoscimento!
Senza rendercene conto, molto del nostro agire è indirettamente volto a colmare la percezione di mancanza di valore e di importanza che talora emerge interiormente. Quindi, ad esempio, continuiamo a chiedere attenzione o siamo eccessivamente compiacenti con persone che “vorremmo conquistare”, a cui vorremmo piacere… questa è la priorità! Insomma, abbiamo ben altro da fare che curarci, studiare, pianificare una carriera, tutte cose noiose…
Se la nostra componente infantile è in conflitto con la parte adulta, è facile che l’azione risolutiva del problema (la terapia, la dieta, lo studio, ecc.) subisca qualche sabotaggio, che potrà andare da qualche deviazione dai comportamenti più appropriati fino alla rinuncia della meta.
A seconda della personalità di base, ognuno di noi avrà più probabilità di attuare certe forme di sabotaggio rispetto ad altre: proviamo a vedere alcune classiche dinamiche.
1. Inizio la cura secondo il protocollo condiviso (o la dieta, o lo studio), ma dopo poco inizio a saltare il programma per qualche giorno, e lo riprendo appena il senso di colpa diventa consistente: entro in un’alternanza legata all’umore giornaliero. Qui opera pesantemente il meccanismo dell’ambivalenza.
2. Inizio la cura senza convinzione, per paura, per compiacere il medico o un familiare ed apporto semplificazioni “innocue” alla terapia per toglierle potenza, ma senza oppormi chiaramente. È un meccanismo di resistenza passiva sorretta da una forma strisciante di opposizione.
3. Consulto più professionisti, compro i farmaci e decido di “curarmi” in modo autonomo, al di fuori di protocolli, indicazioni terapeutiche e verifiche professionali, in un’ottica del “fai da te”. Mi assumo un’enorme responsabilità nella gestione della mia salute, in carenza di specifiche competenze mediche. Si attua di fatto l’antileadership, con opposizione manifesta all’operatore del settore che viene visto come nemico.
4. In presenza di diagnosi e prescrizioni terapeutiche, decido di non curarmi, penso che il problema si risolverà da sé, oppure che non è poi così serio, oppure che è troppo grave per curarlo oppure… che non importa a nessuno se mi curerò. Il meccanismo è la negazione del problema che induce un comportamento passivo.
Sono solo alcuni dei più comuni stili di risposta ad un conflitto tra i bisogni dell’Io Bambino e la capacità operativa dell’Io Adulto.
La via d’uscita? Costruire una equilibrata co-gestione dell’agire utile per la persona, a partire dalla buona conoscenza dei propri bisogni emotivi ed affettivi, perché ormai l’abbiamo capito: sono loro che possono condizionarci significativamente nel quotidiano agire “per i nostri interessi”.
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