Dopo alcuni decenni di silenzio, negli ultimi anni si è ripreso con decisione a parlare di regole, di autorità e di paternità. Questo ritorno evidenzia una palese necessità educativa, un bisogno della pratica educativa. La centratura per lungo tempo attribuita alla dimensione dell’accudimento, dell’accoglienza incondizionata, dell’atteggiamento non giudicante, ha avuto di fatto la conseguenza, a volte anche non voluta, di perdere di vista l’altro polo necessario, ossia quello del confine, del limite, del giudizio oggettivo.
La realtà umana è intrinsecamente segnata da polivalenze ed equivocità. L’uomo rappresenta una realtà complessa in cui convivono istanze diverse ma complementari e spesso impropriamente ritenute contraddittorie. L’uomo ha potenzialità e debolezze, è volto alla bontà ma anche all’egoismo, ha bisogno di comprensione ma anche di rimprovero. La condizione umana, diceva Guardini, è segnata da una “opposizione polare”.
Accoglienza e limite costituiscono una opposizione di cui ogni uomo ha fortemente bisogno. Specialmente nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. È un’opposizione rappresentata di fatto tradizionalmente dalle funzioni materna e paterna. La madre accoglie e accudisce. Il padre pone e fa rispettare i limiti, le regole, le norme. Almeno in Occidente la funzione materna risponde prevalentemente al principio di piacere, quella paterna al principio di realtà. Nel dittico “madre-bambino”, inteso come stato fusionale di piacere, si deve frapporre un terzo, il padre, che deve recidere il cordone ombelicale, che deve aprire alla ruvidità della vita.
È solo grazie a questo “terzo”, grazie al padre, che un individuo impara a convivere con la differenza, a renderla parte di sé. È grazie alla ferita, che il padre infligge alla ricerca esasperata del piacere, che un uomo diventa uomo.
La funzione paterna consente al bambino di acquisire una diversa capacità di sentire e di soddisfare i propri bisogni e desideri. Il padre inoltre limita la fantasia di onnipotenza, tipica del bambino. Il padre svolge quindi la funzione di imporre le regole, definire dei confini, segnare dei limiti.
La funzione paterna è essenziale per permettere l’acquisizione della capacità di tollerare la frustrazione dell’esclusione dal rapporto fusionale della madre con il bambino e al tempo stesso la capacità di proteggere e incentivare nel figlio l’apertura verso l’esterno e la progressiva autonomia.
È noto che Freud riconduce la funzione paterna al meccanismo edipico: il padre si frappone nel rapporto tra la madre e il figlio, ponendo quindi un divieto al godimento senza limite.
Jung, nell’opera Simboli della trasformazione, così definisce la sua idea sull’archetipo paterno: “Il padre è il rappresentante dello spirito, la cui funzione è quella di opporsi alla pura istintualità. Questo è l’ufficio archetipico che a lui compete indipendentemente dalle sue qualità personali”.
La paternità non è soltanto sinonimo di ferita inferta. È molto di più. È il combustibile, proprio in quanto ferita, che alimenta il desiderio. Solo il limite posto e imposto è in grado di far maturare la spinta a superare il presente, a investire sul futuro, a lottare per qualcosa in più. Un figlio senza il padre è disorientato. Il rapporto con sé e col mondo si fa più contrastato. E questo vale sia per il maschio che per la femmina. È difficile crescere e si rischia di rimanere eterni adolescenti Una precisazione è importante. Le funzioni materna e paterna non corrispondono strettamente a padre e madre. La maternità e la paternità non si declinano semplicemente mediante la costituzione biologica. Il padre e la madre possono svolgere entrambe le funzioni in misura variabile. Questo è tanto più vero oggi, in seguito ai cambiamenti di carattere culturale e sociale che hanno investito l’Occidente negli ultimi decenni.
Oggi i maschi offrono accudimenti primari e le donne pongono regole. In alcuni casi invece di distinguere tra funzione materna e paterna, si parla di accudimento primario e di funzioni adulte.
La società senza padri è la società in cui la funzione paterna, quella che incarna il principio di realtà, risulta messa in discussione e pesantemente affievolita. Se i genitori fanno gli “amici” dei figli e giustificano sempre gli atteggiamenti dei figli, se gli insegnanti smettono di esigere che gli alunni facciano sempre i compiti, se gli adulti si comportano da adolescenti, i figli non hanno la possibilità di crescere e diventare adulti. I risultati si vedono nella difficoltà a tollerare le frustrazioni, a non rassegnarsi di fronte agli insuccessi, a lottare nelle situazioni complicate, a volte persino a ribellarsi.
Cosa fare di fronte all’eclisse del padre? Non rimane che recuperare la funzione e la simbologia del padre, accanto a quella della madre. La genitorialità implica le due funzioni e la loro armonizzazione. Il che vuol dire imparare a dire “no”, a porre regole e a farle rispettare, a definire delle distanze e a non oltrepassarle. Accanto a questo, la madre deve imparare a fare il suo e non oltre. La realtà è complessa e come tale va rispettata, paternità e maternità devono convivere, accoglienza e legge devono stare insieme. Certo non sarà facile riscoprire la funzione paterna e i suoi simboli ma non c’è alternativa. Il padre deve ridiventare padre, la madre deve ridiventare madre, l’insegnante insegnante, l’allenatore allenatore, il Sindaco Sindaco… evitando scivolamenti autoritari. Forse il primo passo è rendersene conto.
Cristian Vecchiet è coautore del volume L’autorità in educazione. Ricerca suimodelli educativi della Bassa Friulana, libro che racchiude i risultati della ricerca “L’autorità in educazione”, promossa dall’Associazione La Viarte onluss.
Commenta per primo