L’anno scolastico 2012/13 è iniziato da poco, ma le discussioni sulla riduzione delle ore di lezione prevista dal decreto ministeriale sono tutt’altro che sopite. Per affrontare correttamente la questione, tuttavia, credo sia importante distinguere due aspetti della vicenda: uno prettamente pratico, l’altro più qualitativo.
Un servizio sociale
Fin dalla sua istituzione, la scuola dell’obbligo ha sempre svolto un importante funzione sociale nei confronti delle famiglie accudendone i figli durante le giornate lavorative. Da questo punto di vista, ritengo che la scuola abbia il dovere di venire incontro alle esigenze pratiche delle famiglie, non impedendo da un lato ai bambini di stare con i genitori quando questi sono liberi e, dall’altro lato, di non costringere mamma e papà lavoratori a salti mortali per garantire ai loro figli la presenza di un adulto nei giorni feriali in cui la scuola è chiusa.
Ecco perché in questa visione meramente pratica, la scelta tra i 5 o i 6 giornidi scuola a settimana dovrebbe essere “mista”: consentire cioè alle famiglie di scegliere l’opzione loro più congeniale. E dal punto di vista qualitativo?
Meno ore = Miglior apprendimento. Equazione discutibile
Parlando di questa nuova riforma, viene spesso tirato in ballo il model lo scolastico anglosassone, caratterizzato da cinque intense giornate settimanali (mattina e pomeriggio) di lezioni e attività didattiche, seguite da due giorni (sabato e domenica) di totale libertà. Un modello diverso da quello dell’Europa meridionale e dell’Italia, basato per anni prevalentemente sui sei giorni settimanali di lezione, con cinque ore quotidiane. Dire quale dei due modelli sia il migliore è impossibile. A parità di risorse…
Scuola tutta tagli
In questo contesto la forte riduzione del numero di insegnanti dedicati alle materie più specialistiche rischia di divenire una discriminante pesante nel futuro qualitativo della scuola italiana. Oggi viviamo infatti in un mondo che richiede sempre maggiori competenze e conoscenze: rispondere a questa esigenze diminuendo il numero delle ore di insegnamento e la specificità degli apprendimenti potrebbe essere un autogol pericoloso. Già oggi un ragazzino italiano che frequenta la scuola dell’obbligo (senza corsi privati aggiuntivi) arriva ai 14 anni senza essere in grado di sostenere una conversazione in lingua inglese o senza reali conoscenze dei programmi informatici. Situazione inimmaginabile nel resto d’Europa.
Il futuro? Privato o estero
Nel mondo della crisi globale, gli altri Paesi sono intervenuti sulla scuola per cassa? La risposta è negativa. Anche perché nel resto d’Europa le società hanno trovato equilibri migliori a livello scolastico. In pratica, se si deve tagliare vengono cercate tutte le soluzioni possibili per non doverlo fare nel mondo della scuola e della formazione. La scelta italiana, invece, che taglia indiscriminatamente risorse, rischia di condurre ad una scuola pubblica sempre più debole rispetto a quella privata. Ciò perché le famiglie che vorranno e potranno investire sulla formazione dei propri figli si rivolgeranno a istituti che dispongono delle risorse necessarie per offrire questi insegnamenti. Con uno sguardo sempre più puntato oltreconfine: la “fuga dei cervelli” dall’Italia è infatti ormai una triste realtà quotidiana.
Cambiare rotta? Solo dopo aver toccato il fondo
La domanda più ovvia che viene da porsi è la seguente: perché non si cambiano le cose? Probabilmente, perché sistemi burocraticamente e politicamente complessi come quello italiano, che procede da anni su questa direttrice, fino a quando non sono vicini all’implosione non trovano la forza per cambiare dall’interno.
Tuttavia la drammaticità della situazione impone di prendere il toro per le corna, per evitare che questa società diventi sempre più ignorante. Perché nell’era della conoscenza è impensabile non investire nella scuola, premiando gli studenti meritevoli e offrendo loro opportunità migliori, evitando di parificare tutti al minimo.
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