Nonostante il comodo divano del suo nuovo ufficio, don Vincenzo Salerno siede con i piedi ben saldi a terra, istintivamente pronto a interventi immediati in caso di chiamata. Fresco quarantenne, la sua esperienza in campo formativo ed educativo, corroboratasi nel vicino Veneto, lo ha condotto alla guida della Comunità per minori “La Viarte onluss”, opera salesiana attiva a Santa Maria la Longa.
Don Vincenzo, partiamo proprio dalla questione educativa dei nostri giovani. Dalla sua ottica privilegiata, qual è lo stato dell’arte?
«Nella storia dell’umanità credo che non abbiamo mai avuto tante opportunità educative come adesso: viaggi, interscambi culturali, nuove tecnologie, scuola dell’obbligo. Qualcuno parla di genitori assenti perché costretti a lavorare, ma se penso a com’erano le cose un secolo fa cosa dovremmo dire?».
Tutto perfetto, allora?
«Mi tocca rispondere con un’altra domanda».
Prego…
«In tutti questi rapporti educativi abbiamo realmente qualcosa da dare o da dire ai ragazzi, che non sia la semplice consegna a una forma di meccanismo?».
Adesso però mi dà anche la risposta…
«Le faccio un esempio. Pochi giorni addietro mi chiama il papà di una ragazza, dicendomi che sua figlia si è messa insieme ad un giovane “difficile” che durante una discussione aveva spintonato sia lui che la moglie. Accusando la figlia di aver perso la testa, mi chiedeva disperatamente cosa fare».
Perché questo esempio?
«Perché sempre più genitori arrivano ad affrontare il problema educativo solo quando questo è acuto o quando l’esperienza va male. Avverto invece molta meno preoccupazione riguardo ai valori educativi da trasmettere ai figli, alle regole da insegnare, al percorso da far seguire ai nostri giovani».
Accuse forti.
«Sempre meno genitori quando mettono al mondo un bambino si chiedono “Cosa voglio insegnargli?”. Si aspettano che il proprio figlio si comporti correttamente, sia integrato all’interno della società, voglia bene ai propri genitori: nel momento in cui ciò non avviene, solo allora si chiedono “Cosa non ha funzionato?”. Domanda che a mio avviso dovrebbe sottenderne altre».
Quali?
«“Dove volevo condurre mio figlio nel percorso di crescita? Quanto tempo ho dedicato al dialogo con lui?”. Anche se qui dovremmo aprire un altro discorso sui contenuti del dialogo».
Apriamolo…
«Tutto parte da cosa vuole il genitore! Vuole che suo figlio primeggi e abbia successo o desidera che suo figlio impari ad essere responsabile di chi gli sta attorno, dei legami di amicizia e di lavoro? Senza scordare mai l’aspetto della generosità».
Cosa intende?
«Oggi giorno quale genitore perde del tempo col proprio figlio per spiegargli che se si compiono determinate azioni si fa del bene? Divenire un persona in gamba non viene più visto come un valore: i genitori hanno sempre meno ambizioni educative, ci si accontenta che il figlio se la cavi a scuola, che non faccia troppo del male agli altri e tutto va bene. Cosa poi faccia nel tempo libero non è un problema loro».
Detta così è uno scenario disarmante.
«Da 50 anni a questa parte la grossa scommessa antropologica della società è stata quella di rendere l’individualità l’aspetto più importante della vita. Realizzare i miei sogni, che sono solo miei, è la cosa più importante. Se altri hanno i miei stessi sogni o obiettivi allora diventano miei ostacoli e competitori. Anche in famiglia. E così nessuno aiuta più l’altro a realizzare i suoi sogni».
Perché avviene questo?
«È saltato il legame della solidarietà e della cooperazione, della fiducia nell’altro come soggetto di cui prendersi cura per essere felici. Anzi, questo viene spesso visto come un inconveniente sul percorso della propria autorealizzazione».
Come si possono cambiare le cose?
«Mi aiuto con un altro esempio. Se un ragazzo fa il bullo a scuola emergono due possibilità: o si assiste a passaggi di responsabilità tra dirigenti, insegnanti, genitori, oppure alcuni insegnanti volontariamente si prendono a cuore il ragazzo e cercano di coinvolgere la famiglia o i servizi. A loro rischio e pericolo».
In che senso?
«A livello legale tutto è costruito per lasciare sola la persona. Chi vuole prendersi cura di quel ragazzo deve stare attento a cento cose: la privacy; le reazioni dei genitori che dicono ai professori di pensare esclusivamente all’insegnamento perché all’educazione ci pensano già loro; i dirigenti scolastici che spesso preferiscono non sollevare polveroni. La domanda conseguente che può sorgere nell’insegnante è “Chi me lo fa fare?”».
La domanda di partenza resta ancora sospesa: come si possono cambiare le cose?
«Bisogna modificare la mentalità secondo cui ognuno deve farsi i fatti propri, che ha già indebolito pesantemente la società. Il come è più complesso: una possibilità è fare in modo che laddove ci sono delle esperienze familiari e comunitarie che fanno della responsabilità e della solidarietà il loro fulcro, queste vengano valorizzate. Possibilmente, ridando fiducia agli educatori».
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