Ore quotidiane per il lavoro, per la cura del corpo, per accudire la casa, i figli, i nonni, il giardino. Ore ad incastro nella settimana per la ginnastica, il corso d’inglese, forse per un hobby. Weekend in bicicletta o comunque fuori casa, altrimenti è “tempo sprecato”. E poi almeno due viaggetti all’anno...
Ma siamo davvero bravissimi: sappiamo ottenere “il massimo” dalla nostra vita. Grazie ad una organizzazione efficiente dei tempi e delle risorse disponibili non ci “lasciamo sfuggire nulla”. Più o meno consapevolmente riteniamo che per vivere pienamente ed essere appagati sia necessario agire molto, rincorrendo sempre nuove mete, più nuove, più interessanti e naturalmente più accreditate dal nostro modello culturale. Possiamo serenamente accettare questo orientamento come espressione dei nostri tempi e della società occidentale del terzo millennio, a patto di riuscire a togliere il tratto di coazione all’agire che invece spesso accompagna questo stile di vita: l’obbligo di trovare l’offerta migliore prima degli altri, l’obbligo di farcire la propria settimana di impegni non tutti realmente significativi, l’obbligo di sfiancarsi in attività fisiche senza rispettare se stessi.
Tutta questa frenesia costituisce un fuoco d’artificio senz’altro spettacolare ed anche gratificante: a tutti piace venir definiti persona attiva, di vasti interessi e conoscitrice del mondo. Ma proprio questa approvazione sociale ci obbliga in un secondo momento a “mantenere lo standard”, a continuare nell’accumulo di esperienze, di diplomi, di abilità, di pseudo amicizie, di forma fisica, di divertimenti. Insomma, appaiamo “fighissimi” ma non siamo liberi.
È evidente che rispetto a tre generazioni fa, il nostro ambiente sociale ci prescrive di svolgere molte più attività nell’arco della giornata e dell’intera vita. Ciò significa che mentre siamo impegnati in un compito, una parte della nostra mente sta già anticipando la prossima attività: psicologicamente siamo tesi, quasi impazienti di passare all’impegno numero 2 per affrontarlo e poi finalmente concludere... ed essere liberi.
Come noto questo atteggiamento si può accompagnare all’ansia da prestazione, cioè la paura di non farcela, di non essere all’altezza o di non riuscire a tenere il ritmo. In pratica incorriamo in un autogol: faccio tanto per arricchire la mia vita, ma la continua rincorsa e la fatica mi fanno dubitare della riuscita e quindi non sono intimamente appagato. Ciò che viene perso è il godimento semplice, puro, senza tanti fronzoli. Evidentemente ogni nostro agire impegnato ha un senso immediato (lo scopo manifesto) che è sempre riconducibile ad una forma di utilità.
Facciamo un esempio: mi iscrivo ad un corso serale d’inglese per migliorare le mie conoscenze solo scolastiche. Lo scopo palese è di potermi esprimere decentemente nei miei viaggi di lavoro, ma anche in quelli di piacere. In sostanza l’accrescimento di una mia abilità è in primo luogo utile per alcune applicazioni in ambito professionale (migliorare le mie trattative di vendita con partner stranieri). Se vogliamo analizzare meglio la situazione, possiamo considerare un aspetto che talvolta ci sfugge, pur essendo cruciale: non possiamo ignorare che lo sviluppo dell’abilità comunicativa in inglese produce una serie di fenomeni interiori che non ascrivono alla immediata utilità, ma piuttosto al piacere: scoprire di riuscire a pensare in inglese, apprezzare la musicalità del proprio eloquio, sentirsi se stessi anche parlando un altro idioma, ecc. E la motivazione necessaria a frequentare il corso serale dopo una giornata lavorativa è senz’altro una funzione della soddisfazione che immaginiamo di ottenere dal saper parlare bene una lingua straniera. La promessa di un godimento futuro è il vero motore di ogni nostro nuovo agire, impegnarci, stancarci. Contemporaneamente costituisce il senso profondo (o funzione psicologica) che ogni agire ha per il nostro assetto di personalità e per i suoi bisogni (successo, indipendenza, accettazione, ecc.).
Ma l’agire può avere un significato ulteriore, che propongo di chiamare “evolutivo”. Nel momento in cui decidiamo di “provare” a fare una nuova attività, oltre agli scopi manifesti e alle funzioni psicologiche di cui abbiamo appena parlato, interviene un fenomeno di amplificazione della nostra coscienza che non è connessa a specifiche ambizioni ed aspettative soggettive, e ci troviamo coinvolti nell’inatteso aumento della consapevolezza. Per semplificare, proviamo ad immaginare di essere inizialmente seduti su di una panchina al parco e di osservare l’orizzonte attorno a noi. Successivamente prendiamo l’ascensore e saliamo sul tetto del condominio: vedremo ben altre cose, che non avremmo mai potuto immaginare restando al parco. La nostra consapevolezza della situazione ambientale in cui viviamo ne viene profondamente trasformata.
Ogni attività non banale che siamo disposti a provare può costituire quindi un’apertura su nuovi orizzonti, un ampliamento della coscienza e la scoperta di nuove prospettive: è anche di questo che si nutre l’evoluzione personale.
Commenta per primo