Prime conoscenze
Genova, dicembre 1919. La Prima Guerra Mondiale è finita da un anno, ma il servizio militare non è ancora terminato per molti ragazzi, fra cui un giovane ufficiale che però ottiene un permesso dai suoi superiori per un viaggio a Trieste. Il suo nome entrerà nel mito: Eugenio Montale. A quanto pare, Trieste è la sua prima meta da ‘turista’ scelta autonomamente: alla base c’è forse il desiderio di vedere la città appena entrata nel Regno, simbolo delle vecchie mire irredentiste. Ma agli occhi di Montale, lettore onnivoro e poeta alle prese con le sue prime prove letterarie, la Trieste di allora è anche la città da cui sono giunti due fra i libri più anomali e dirompenti del primo Novecento: Il mio Carso di Scipio Slataper (1912) e Cose ed ombre di uno di Carlo Stuparich (1919). Nonché il luogo da cui arriva in Italia un vento nuovo, spirante dalla Vienna di Sigmund Freud: quello della psicanalisi.
Nel 1923 Trieste torna nella vita di Montale grazie alla conoscenza, a Genova, con un coltissimo impiegato giuliano di nome Roberto Bazlen, per tutti ‘Bobi’. Uomo silenzioso, fedele a quella riservatezza che trasforma alcuni personaggi in leggende viventi, Bazlen diventerà consulente editoriale per le più importanti case editrici italiane, nonché ideatore della Adelphi: nel 1923, però, è solo un triestino in cerca di fortuna nella città ligure. A questa figura straordinaria e alla sua Trieste, molti anni più tardi, Montale dedicherà la poesia Lettera a Bobi, nella raccolta Diario del ’71 e del ’72:
A forza di esclusioni / t’era rimasto tanto che tu potevi / stringere tra le mani; e quello era / di chi se n’accorgeva. T’ho seguito / più volte a tua insaputa. Ho percorso / più volte via Cecilia de Rittmeyer / dove avevo incontrato la tua vecchia madre, / constatato de visu il suo terrificante amore. / Del padre era rimasto il piegabaffi e forse / una bibbia evangelica. Ho assaggiato / la pleiade dei tuoi amici, oggetto / dei tuoi esperimenti più o meno falliti / di creare o distruggere felicità coniugali. / Erano i primi tuoi amici, altri / ne seguirono che non ho mai conosciuto. / S’è formata così una tua leggenda / cartacea, inattendibile. Ora dicono / ch’eri un maestro inascoltato, tu / che n’hai avuto troppi a orecchie aperte / e non ne hai diffidato. Confessore / inconfessato non potevi dare / nulla a chi già non fosse sulla tua strada. / A modo tuo hai già vinto anche se hanno perduto / tutto gli ascoltatori. Con questa lettera / che mai tu potrai leggere ti dico / addio e non aufwiedersehen e questo / in una lingua che non amavi, priva / com’è di Stimmung [‘armonia’ in tedesco, ndr].
Un mondo nuovo
Bobi Bazlen, per Montale, è la porta spalancata verso un mondo nuovo, popolato da autori all’epoca quasi ignoti: Kafka, Musil e uno scrittore triestino dallo pseudonimo di Italo Svevo, autore dei romanzi Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno. Montale ne rimane folgorato, tanto da pubblicare, nel 1925, un articolo a lui dedicato sulla rivista L’esame: il primo in assoluto, l’inizio di una consacrazione che per Svevo arriva alla fine della sua vita, dopo anni di totale disinteresse nei suoi confronti. Nonché l’inizio di una amicizia sincera fra i due, cementata da un intenso rapporto epistolare e intrecciata ad altre conoscenze illustri, come James Joyce, Ezra Pound e soprattutto Umberto Saba, a cui, dopo un’iniziale incomprensione reciproca, rimarrà legato per tutta la vita. Ma in quel 1925 anche Montale è al suo esordio con una raccolta poetica destinata a cambiare per sempre la letteratura italiana: Ossi di seppia.
«Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni»: l’inizio de I limoni, il primo degli ‘Ossi’, è una di quelle rivelazioni che la scuola, ogni tanto, regala all’adolescenza; è la scoperta di una letteratura che parla una lingua viva e narra ansie e sentimenti di oggi. Di poesia in poesia, la raccolta è uno squarcio su una vita raccontata fino all’ultima delle confessioni: un mettersi a nudo che ha il suo apice nella sezione Mediterraneo. Nove liriche, non a caso, dedicate all’amico e mentore triestino: Bobi Bazlen.
Storie di donne
Nel 1928, a Motta di Livenza, un incidente stradale pone fine alla vita di Svevo: per Montale è un dolore fortissimo, ma nel frattempo la trama di relazioni intessute con l’intellighenzia giuliana è sempre più fitta. Risale a questi anni la conoscenza con Gertrude Frankl, per tutti Gerti, nata a Graz ma triestina d’adozione, fotografa d’arte e di viaggi, ex operatrice cinematografica accanto a Fritz Lang. A lei Montale dedica, su richiesta di Bazlen, Il Carnevale di Gerti, dove la rievocazione di una sfilata in maschera nell’Austria felix poco prima della catastrofe del ’15-’18 è il pretesto per una riflessione sul male di vivere dell’età adulta:
Come tutto si fa strano e difficile, / come tutto è impossibile, tu dici. / La tua vita è quaggiù dove rimbombano / le ruote dei carriaggi senza posa / e nulla torna se non forse in questi / disguidi del possibile. Ritorna / là tra i morti balocchi ove è negato / pur morire; e col tempo che ti batte / al polso e all’esistenza ti ridona, / tra le mura pesanti che non s’aprono / al gorgo degli umani affaticato, / torna alla via dove con te intristisco, / quella che additò un piombo raggelato / alle mie, alla tue sere: / torna alle primavere che non fioriscono.
Il piombo raggelato è quello gettato nell’acqua fredda dei fiumi per trarne, una volta solidificato in varie forme, bizzarri oroscopi secondo un rito tradizionale austriaco: esotismi che per il ligure Montale sono vera fonte d’ispirazione. Così come accadrà con una foto inviatagli da Bazlen, datata 25 settembre 1928 e accompagnata dalla didascalia «un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus». La foto raffigura semplicemente due gambe femminili: Montale ne trarrà una delle più belle liriche del Novecento. Dedicate a una donna che il poeta non conobbe mai, eppure sviluppate come il ricordo di in un incontro presso Ravenna, le prime tre strofe di Dora Markus risalgono proprio a quel 1928:
Fu dove il ponte di legno / mette a Porto Corsini sul mare alto / e rari uomini, quasi immoti, affondano / o salpano le reti. Con un segno / della mano additavi all’altra sponda / invisibile la tua patria vera [Trieste e, soprattutto, l’Austria – ndr]. / Poi seguimmo il canale fino alla darsena / della città, lucida di fuliggine, / nella bassura dove s’affondava / una primavera inerte, senza memoria. // E qui dove un’antica vita / si screzia in una dolce / ansietà d’Oriente, / le tue parole iridavano come le scaglie / della triglia moribonda. // La tua irrequietudine mi fa pensare / agli uccelli di passo che urtano ai fari / nelle sere tempestose: / è una tempesta anche la tua dolcezza, / turbina e non appare, / e i suoi riposi sono anche più rari. / Non so come stremata tu resisti / in questo lago d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!
Le successive quattro, invece, sono del 1939: la Seconda Guerra Mondiale sta per iniziare e l’ombra nera del nazismo è già calata sull’Europa. L’ebrea Dora, che nel frattempo è già emigrata in America per fuggire alla follia hitleriana, nell’invenzione poetica di Montale diventa ora il simbolo di un mondo che sta per entrare nella tragedia più sconvolgente della storia:
Ormai nella tua Carinzia / di mirti fioriti e di stagni, / china sul bordo sorvegli / la carpa che timida abbocca / o segui sui tigli, tra gl’irti / pinnacoli le accensioni / del vespro e nell’acque un avvampo / di tende da scali e pensioni. // La sera che si protende / sull’umida conca non porta / col palpito dei motori / che gemiti d’oche e un interno / di nivee maioliche dice / allo specchio annerito che ti vide / diversa una storia di errori / imperturbati e la incide / dove la spugna non giunge. // La tua leggenda, Dora! / Ma è scritta già in quegli sguardi / di uomini che hanno fedine / altere e deboli in grandi / ritratti d’oro e ritorna / ad ogni accordo che esprime / l’armonica guasta nell’ora / che abbuia, sempre più tardi. // È scritta là. Il sempreverde / alloro per la cucina / resiste, la voce non muta, / Ravenna è lontana, distilla / veleno una fede feroce. / Che vuole da te? Non si cede / voce, leggenda o destino… / Ma è tardi, sempre più tardi.
Ultimi ricordi
Dopo il conflitto, Trieste finisce sotto il controllo degli Alleati e Montale ne rimarrà lontano per qualche anno. Ci tornerà nel 1952, per tenere una conferenza dal titolo Poeta suo malgrado al Circolo della Cultura e delle Arti, nonché nel 1961 per commemorare l’amico della sua gioventù: Italo Svevo, nel centenario della nascita. Poi, solo ricordi, come in una poesia dedicata a Lina, moglie di Saba: «Rammento Miramare perlato, rammento / il boschetto in salita d’onde appare / l’arsenale e il suo fumo che si confonde / con la malinconica nebbia mattutina. / Rammento le tue parole a ventaglio, / aperte-chiuse con scorrevole grazia, / e l’adriatica sera che disperdeva / la tua curiosità insazia. // Rammento… // Nulla più rammento. Quanto / tempo, quanta distanza, quante mura / dritte; e che inferno attorno, scatenato». Sofferenze che non gli impediranno di ottenere, nel 1975, il Nobel per la letteratura: la consacrazione di una vita dedicata all’arte.
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