È quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, con la sentenza n. 36503 dell’11 Ottobre 2011. Con tale pronuncia i Giudici di legittimità hanno confermato la condanna – inflitta in primo grado dal Giudice per l’udienza preliminare di Ferrara, e ribadita poi in secondo grado dalla Corte d’Appello di Bologna – ai danni di un nonno materno e della madre di una minore, per il delitto di cui all’art. 572 c.p.: la condotta punita è quella di avere adottato, in concorso tra loro, quali conviventi della bambina, atteggiamenti iperprotettivi nei confronti della stessa, consistiti nel non averle fatto frequentare con regolarità la scuola, nell’impedirle la socializzazione (la ragazzina aveva conosciuto i suoi coetanei soltanto in prima elementare), nell’impartirle regole di vita tali da incidere sullo sviluppo psichico con conseguenti disturbi deambulatori e, infine, nell’averle rappresentato la figura paterna come negativa e violenta, imponendole addirittura di farsi chiamare col cognome materno.
L’art. 572 c.p. punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. Il bene protetto dalla norma non è costituito soltanto dall’interesse dello stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori o violenti, ma anche alla tutela dell’integrità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto.
La sentenza in esame ha chiarito che nel concetto di maltrattamenti richiesto ai fini della configurabilità del delitto rientrano non solo condotte che si qualifichino per una spiccata connotazione negativa, talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma anche atteggiamenti iperprotettivi, qualificabili come eccesso di accudienza, di protezione e di cura. Tanto i Giudici del primo grado, quanto i Giudici d’Appello, avevano ritenuto che gli atti di maltrattamento ai danni della minore si fossero materializzati in atteggiamenti iperprotettivi, mantenuti e proseguiti fino all’età preadolescenziale, con imposizione di atti riservati all’età infantile, nonché nell’esclusione della bambina anche da attività didattiche istituzionali, inerenti la motricità, in deprivazioni sociali (impedimento di rapporti con coetanei) e psicologiche (rimozione della figura paterna).
Tali condotte, una volta accertate, sono state nel loro complesso valutate come concretamente idonee a ritardare gravemente nel minore sia lo sviluppo psicologico relazionale, sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari. Il nonno e la madre della bambina proponevano ricorso in Cassazione avverso tale sentenza deducendo, tra gli altri motivi, l’errata qualificazione giuridica del fatto, sotto il profilo dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. Secondo i difensori degli imputati, infatti, il reato in esame sarebbe stato configurabile solo in caso di condotte chiaramente negative, o violente, mortificanti o ingiustamente punitive della vittima quali, ad esempio, la ripetuta esposizione del minore a contesti erotici inadeguati alla sua età, o l’utilizzo di mezzi e metodi trascendenti qualsiasi aspetto di liceità correttiva ed estranei a ogni plausibile scopo pedagogico formativo, sostanziati in percosse e punizioni umilianti e gratuite. Al contrario, sosteneva la difesa, atteggiamenti di iperprotezione o ipercura, lungi dal costituire i maltrattamenti sanzionati dalla norma, integrerebbero la ripetizione di condotte che nascono come positive e certamente ispirate da lodevoli intenzioni, salvo poi riverberare effetti negativi su chi subisce tali condotte, a causa della loro eccessiva e patologica esasperazione.
Eppure, la Cassazione ha respinto tali argomentazioni, ritenendo non soltanto che atteggiamenti iperprotettivi, qualificabili come eccesso di accudienza, di protezione e di cura possano integrare la fattispecie delittuosa, ma anche che tali comportamenti, violenti e vessatori soltanto in senso lato, possano ledere l’integrità fisica o morale, oltre che la libertà ed il decoro della vittima. Secondo la Cassazione, inoltre, il comportamento di madre e nonno deve ritenersi sorretto da dolo perché se è ragionevole ritenere che, inizialmente, la madre ed il nonno potessero avere agito in buona fede nella scelta delle metodiche educative, isolandola nelle sicure “mura domestiche”, tale convinzione soggettiva non era più invocabile dopo che, in aiuto alla bambina, erano addirittura intervenuti degli esperti dell’età evolutiva e dei disagi psichici infantili, oltre che l’Autorità giudiziaria stessa. La persistenza, a giudizio della Suprema Corte, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni, è indice, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’intenzionalità che connota il delitto di maltrattamenti in famiglia.
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