Se impariamo a mettere l’accento sul concetto di responsabilità personale piuttosto che sulla “assunzione di colpa”, non facciamo un semplice gioco di prestigio, un furbo alleggerimento a nostro favore. Al contrario, questo atteggiamento è la strada maestra per consentire ad ognuno di noi di evolvere da una condizione nella quale siamo “sudditi”, quindi potenziali vittime delle nostre pulsioni ed azioni, verso una situazione in cui diventiamo “cittadini” consapevoli nel governo dei nostri interessi e dei comportamenti. Ho preso in prestito la formula “sudditi o cittadini” da Montesquieu, filosofo illuminista che nella sua opera “Lo spirito delle leggi” ha così sintetizzato la necessità di un’evoluzione nel modo di sentire l’autorità dello Stato e di partecipare alla vita sociale della nazione: da una posizione passiva ed impotente ad un approccio attivo ed efficace. Trasponendo questo concetto evolutivo alla psicologia individuale, riusciamo ad immaginare un prima e un dopo negli atteggiamenti di una persona, lungo una dimensione temporale: in realtà ogni atteggiamento può cambiare, arricchirsi di nuove connotazioni e portare ad una maturazione di tutta la personalità.
Non siamo obbligati a stare male! Nel caso di un “senso di colpa” invadente e pesante, come si fa ad impedirgli di diventare bloccante, di innescare una serie di reazioni interiori tendenzialmente svalorizzanti e distruttive per noi stessi? Come abbiamo descritto nella precedente puntata, questa frustrante percezione dell’aver commesso un errore tendenzialmente induce a delle “reazioni” abbastanza tipiche, insomma crea un automatismo compensatorio (se penso a ciò che ho fatto sto male, e per stare meglio devo fare qualcosa, rimediare, scusarmi, non mangiare, isolarmi, ecc.).
Frustrazione e compensazione vanno a braccetto: se c’è una, c’è anche l’altra, e la compensazione potrà assumere le forme più varie. Sto descrivendo un meccanismo generale che ha lo scopo di creare un equilibrio psicologico nella persona che “ha sbagliato”, equilibrio apparente e comunque molto fragile. L’operazione di compensazione è prevalentemente automatica, quasi istintiva, e noi ci sottomettiamo ad un imperativo interiore che ci indica cosa fare: in tal senso siamo “sudditi” dei nostri impulsi, obbediamo, ci interessa soprattutto di non soffrire per un invadente senso di colpa.
Potrebbe funzionare questo modo di alleggerire le responsabilità? In realtà la pecca principale di questo meccanismo consiste nel suo essere faticosissimo, sempre alla rincorsa di cose da fare o non fare per stare in equilibrio. Per non parlare del fatto che polarizza l’attenzione, il controllo e le energie della personalità solo per tamponare una falla, invece di indirizzarle verso mete costruttive. Possiamo constatare che in quest’ottica noi diventiamo persecutori di noi stessi, e a volte non ne siamo nemmeno consapevoli, però manifestiamo sintomi atipici e disagio: un costo troppo alto.
Che fare? Si impone quindi la ricerca di un diverso modo per raggiungere un nuovo equilibrio interiore, per rinvigorire l’autostima e trovare la pace con se stessi. È necessario cercare un modo attivo da “cittadini” nella gestione della propria psiche, più maturo e rivolto a migliorare le proprie relazioni umane piuttosto che teso semplicemente a compensare il disagio personale, adottando un approccio rivolto al futuro piuttosto che la permanenza nella prigione dell’evento passato.
1. Il primo passo potrebbe consistere in una piena accettazione della propria responsabilità nell’aver prodotto un certo fatto. La consapevolezza chiara del livello di influenza che abbiamo esercitato sul verificarsi dei fatti è un punto essenziale per non cadere nella proiezione (è colpa di altri) o nel delirio di onnipotenza (è una colpa disastrosa e totalmente mia). A questa definizione più obiettiva della responsabilità bisognerebbe dedicare del tempo confrontandosi con qualcuno, poiché i soliloqui senza contraddittorio sono sempre fuorvianti.
2. L’atteggiamento più utile sarebbe una disposizione a rimediare i danni materiali provocati o a testimoniare la solidarietà per danni psicologici inflitti. Talvolta è più semplice affrontare i primi piuttosto che i secondi.
3. Infine, il passo essenziale: il perdono che dobbiamo a noi stessi.
Per l’errore fatto in primo luogo, per il male subito da altri, ma soprattutto perché il nostro dialogo interiore non si incancrenisca a rimestare sempre gli stessi temi e non gratti le stesse piaghe, in una palese inutilità. Questa operazione, il perdono, sotto il profilo pratico è il permesso a vivere ancora, dopo l’errore. La sua potenza è determinante per consentirci di andare avanti, con i limiti umani ben chiari e con la consapevolezza che si può evolvere nella direzione desiderata.
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