Nel nostro Paese è ampiamente diffusa l’attività imprenditoriale, in forme tuttavia molto diverse da quelle che caratterizzano le realtà economiche degli altri Paesi dell’Occidente industrializzato. I numeri sono noti, si parla di 8 milioni di titolari di attività, dove microimprese e partite IVA fanno la parte del leone. Un universo in continua evoluzione ed i cui sviluppi non sembrano essere stati bloccati dalla crisi epocale che stiamo vivendo.
La visione di un’Italia ripiegata su se stessa, incapace di reagire ed affetta da depressione motivazionale, prima che economica, che spesso emerge da letture superficiali e da interpretazioni parziali dei fenomeni è spesso il frutto di italiche credenze e di posizioni pregiudiziali nei confronti del fare impresa. È proprio vero che in periodi di crisi, la creatività, le capacità di innovare, di generare e credere in nuove idee e la determinazione nel realizzare vengono meno? Sembra di no, il virgiliano de necessitate virtute sembra valere anche ai giorni nostri.
Infatti dal recente rapporto Unioncamere emerge che nel triennio di crisi appena trascorso il tasso di natalità imprenditoriale eccede ancora largamente il tasso di mortalità, con un saldo positivo di 72.000 unità nel 2010, confermando un trend che non si è mai interrotto. Accanto al significativo fenomeno quantitativo si delineano tendenze qualitative altrettanto, se non più, importanti. La maggior parte delle nuove imprese sono costituite da giovani nella fascia di età dai 30 ai 40 anni e quanto alle motivazioni esse si riferiscono alla volontà di investire su se stessi per sfruttare le proprie competenze, le opportunità di mercato e per realizzare una migliore prospettiva di vita lavorativa. Va evidenziato anche il fenomeno degli ex lavoratori dipendenti, pari a circa un terzo dei nuovi imprenditori, la cui motivazione è data dalla necessità di trovare una soluzione ad uno stato di perdurante disoccupazione. Giovani ed ex dipendenti, ma anche immigrati e donne – in particolare l’imprenditoria femminile segna un trend in netta ascesa – che hanno dato vita in prevalenza a nuove imprese in forma societaria (dalle cooperative a quelle di capitale), un segnale di cui compiacersi e di apertura delle nuove generazioni che andrebbe incoraggiato con forza per superare il nostro capitalismo individual-molecolare. Le start up di ieri sono le imprese di oggi, quelle di domani possono nascere dalle idee, dalla passione e dalle visioni che questo uni- verso in movimento sta provando a realizzare. Un universo in cui si trova di tutto, dalla società di servizi in settori tradizionali, all’artigianato di qualità, all’alta tecnologia, e che si sviluppa malgrado le carenze e gli ostacoli che di certo non agevolano e supportano l’imprenditività nel nostro Paese. Spesso si dice che tali carenze ed ostacoli sono di natura strutturale, affermando ad esempio che:
• la prevalenza di settori tradizionali e maturi frena le prospettive di rilancio e di innovazione in altri settori;
• le carenze di persone e capitale umano frenano lo sviluppo nei settori più innovativi;
• le politiche industriali inadeguate ed una burocrazia amministrativa pesante sono i fattori che zavorrano il potenziale imprenditoriale.
Ma probabilmente le cose non stanno proprio così. Con riferimento al primo punto, risponde a verità il fatto che l’allocazione delle risorse finanziarie (finanziamenti e capitale) vada per lo più ai set- tori tradizionali, dalla moda alla meccanica (e meno male che ci sono, altrimenti dove sarebbe la nostra economia). Ciò che manca, anche in questo periodo di crisi acuta, non sono, o non sono tanto, i capitali: sono l’attitudine, le competenze e la consuetudine di avvicinarsi e comprendere il variegato mondo dell’innovazione, quelle capacità di accompagnare l’idea, l’avvento del nuovo e l’impresa allo stato nascente a percorrere il primo miglio di vita supportandola anche finanziariamente. Non si tratta di grandi importi, come quelli cui sono adusi i fondi di Venture Capital e Private Equity. Serve il micro venture capital: piccoli importi per nuove idee. Tale carenza non è però affatto riscontrabile rispetto al capitale umano, alle persone con idee giuste ed innovative nei settori che oggi ed in futuro genereranno maggiore valore aggiunto. In Italia esistono strutture di promozione dell’imprenditorialità (incubatori, centri di ricerca, Università, Enti ed Associazioni pubblici e privati, ecc.) che esaminano migliaia di progetti di impresa all’anno, non solo nel settore ITC e web, ma anche in altri settori fortemente innovativi (per esempio le biotech e le nano tecnologie).
Lì non mancano certo idee e voglia di fare. Purtroppo questi progetti si trasformano in imprese solo per una parte risibile e del tutto frazionale. E non perché non siano validi, ovvero progetti che varrebbe la pena di sostenere, di veder nascere e aiutare a crescere. Pochi si assumono questo compito, perché in Italia il settore del Venture Capital per l’innovazione di fatto non esiste. Non è assolutamente così non solo negli Stati Uniti e in Inghilterra, dove c’è un mercato strutturato, mirato al sostegno imprenditoriale e finanziario di queste iniziative, che funziona a pieno regime già da una ventina d’anni. Ma anche in altre realtà come Francia, Germania, Olanda, Israele dove il sostegno all’innovazione è misurabile in punti percentuali del Pil e dove l’appoggio alle nuove realtà imprenditoriali sta cominciando a tradursi sia in crescita economica che in vantaggio competitivo del sistema paese. In Italia manca infatti completamente un ecosistema dell’innovazione, non c’è un tessuto connettivo che metta in rete tutti gli attori in causa. Piange il cuore dover consigliare a un giovane talento imprenditoriale italiano di fare la valigia e andare all’estero, oppure di ammettere di fronte a chi già vive all’estero, una vera diaspora di talenti nostrani, che in Italia non ci sono (si dice ancora) le condizioni che favoriscano un loro rientro. Quanto alle politiche industriali e di stimolo agli investimenti, non è corretto attribuire tutte le responsabilità di mancanza di sviluppo al settore pubblico.
Le responsabilità stanno anche nel settore privato, che non crede nell’innovazione, non investe nello sviluppo dell’impresa, magari preferendo mettere i quattrini in Btp in un BTP Day, piuttosto che rischiarli nel finanziare nuove idee e attività imprenditoriali, o al limite trovare un operatore estero di Private Equity che rilevi l’azienda già funzionante in presenza di problematiche di successione generazionale irrisolte. Non si tratta di riprodurre in Italia il modello della Silicon Valley, dove sistematicamente gli ex imprenditori, una volta lasciata la loro creatura, diventano business angel finanziando le idee degli altri. Ma se l’Italia vuole avere una chance di riagganciare un sentiero di sviluppo deve cambiare il suo modo di pensare, deve tornare a vedere nei settori e nelle idee innovativi lo strumento per il suo sviluppo. Dobbiamo investire sul futuro, su orizzonti temporali di 5/10 anni, aiutando le nuove generazioni a superare il senso di straniamento che provano in un contesto simile. L’Italia è una nazione ricca, dove esistono patrimoni bloccati che vanno mobilizzati per creare il futuro e fare investimenti. Le idee e la voglia di fare ce l’hanno donne e uomini di 20, 30, 40 anni. Sarebbe bene cominciare ad ascoltarli di più, supportandoli nella creazione delle condizioni in cui l’intraprendere diventi una fase naturale del proprio ciclo di vita per generare un futuro di aspettative migliori.
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