Tutti nella loro vita hanno provato almeno qualche volta un opprimente peso sullo stomaco, un senso interiore di fastidio e la cognizione di essere in errore. È il nostro compagno di strada più dannoso: il famigerato “senso di colpa”.
Di questo tema la letteratura è colma e se ne nutre, poiché spesso le passioni umane inducono ad atti e desideri che la morale corrente catalogherebbe come scorretti o comunque censurabili. Dal punto di vista della Psicologia, molte delle dinamiche relazionali tra le persone risentono proprio del potere del senso di colpa, che interviene potentemente ad influenzare tanto le nostre decisioni quanto le azioni. Agire sotto la pressione di un senso di colpa significa semplicemente non essere liberi, e ne scaturiscono alcuni possibili tipi di comportamento:
• riparare concretamente il danno derivato dall’azione lesiva (ammissione esplicita di responsabilità);
• compensare la colpa a favore di se stessi con atti buoni ma non connessi direttamente con il danno subito dalla vittima (ammissione implicita di colpa);
• ripetere l’atto che ha generato il senso di colpa (negandone implicitamente la componente lesiva e quindi la colpa);
• adottare verso se stessi atteggiamenti e comportamenti profondamente svalutativi (esaltazione dell’ammissione di responsabilità e della colpa);
Queste sono solo le dinamiche più semplici e frequenti, ma già ci fanno capire come il senso di colpa “autogestito” possa condizionarci nella fase di vita che segue all’atto riprovevole, sbagliato, censurabile. Non di rado ce lo trasciniamo sulle spalle come un pesantissimo zaino carico di pietre per tutta la vita. Le colpe che normalmente consideriamo davvero infamanti, cioè senza redenzione, irrimediabili, senza speranza, per fortuna sono poche ed appartengono a categorie ben precise, ad esempio i genocidi e le stragi.
Come mai allora ci adattiamo a vivere con un senso di colpa che dura anni per comportamenti scorretti ed errori di ben più misera portata? Se dovessimo davvero risolvere la questione di un errore di comportamento, razionalmente dovremmo adottare il primo tipo di azione: riparare il danno materiale o più spesso psicologico. In questo caso la colpa si scioglierebbe ed evaporerebbe automaticamente lasciandoci nuovamente “puliti”. In realtà questa modalità di soluzione del problema è la meno seguita. La modalità più gettonata è la compensazione: “ti ho fatto un torto, ma non posso ammetterlo, però sto male quindi ti darò qualcos’altro per farmi perdonare”. Molto adottata da genitori assenti o distratti, coniugi annoiati, colleghi di lavoro simpatici ma sleali. (Scrivendolo mi rendo conto che è un’analisi pesante, ma la possiamo alleggerire ricordando che siamo umani).
Naturalmente l’atteggiamento compensatorio può durare anni, quindi diventa parte integrante dell’educazione dei figli e del rapporto di coppia. Questo, comunque, non è uno stile del tutto negativo: in fin dei conti l’intenzione di riparare genera situazioni gratificanti ed ammorbidisce il clima relazionale tra “vittima” del torto e “colpevole”, aprendo anche a possibili più esplicite ammissioni di responsabilità. Ed è proprio il tema della responsabilità che ci guida nell’analisi degli ultimi due tipi di soluzione al senso di colpa:
1. chi tende, nonostante il disagio interiore, a ripetere atti scorretti o lesivi non vuole essenzialmente prendere reale contatto con le proprie emozioni poiché la sua identità profonda ne verrebbe squalificata senza appello: è giudice di se stesso, in un delirio di individualismo nel quale è carnefice e vittima contemporaneamente. Poiché questa è una posizione che non consente di salvarsi, la via d’uscita è il potentissimo meccanismo della negazione: “non l’ho fatto, e comunque non è dannoso, non c’è nulla di male... infatti lo rifaccio”. È la perseverazione.
2. Chi ascolta solo le proprie emozioni, il disagio profondo che deriva da un senso di colpa, tende a darsi da scontare una pena eterna, si svaluta in molti modi, non si prende cura di sé fisicamente, si lascia andare, talvolta si mortifica nelle occasioni di godimento o giunge all’autolesionismo. In realtà il meccanismo psicologico è analogo al precedente: un senso di onnipotenza che investe il responsabile della scorrettezza e lo redime solo impedendogli di vivere una normale vita equilibrata, poiché egli dovrà “pagare sempre, ogni giorno, per tutta la sua vita”. È il martirio autoinflitto.
Da quanto abbiamo sinteticamente analizzato, vediamo chiaramente che queste due ultime modalità di reazione al senso di colpa sono le più “patologiche”, sono quelle che generano potenziali Persecutori e potenziali Vittime, con le lettere maiuscole, cioè individui che inconsapevolmente si collocano in posizioni esistenziali fortemente negative. Come si giunge ad assumere posizioni così estreme, di negazione del male evidente o di annullamento di se stessi nella colpa? Purtroppo la risposta la conosciamo ma non sappiamo riconoscerla: è l’individualismo. Per l’esattezza: l’individualismo estremo ed il conseguente sproporzionato senso di responsabilità che la nostra psiche per difesa annulla oppure esalta. Alla prossima puntata.
Commenta per primo