In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’instaurazione di una famiglia di fatto - quale rapporto stabile e duraturo di convivenza - attuato da uno degli ex coniugi, rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale e, in relazione ad essa, il presupposto per la riconoscibilità, a carico dell’altro coniuge, di un assegno divorzile, il diritto al quale entra così in uno stato di quiescenza, potendosene invero riproporre l’attualità per l’ipotesi di rottura della nuova convivenza tra i familiari di fatto.
È quanto stabilito recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione Civile , sez. I, con la sentenza n. 17195 dell’11 agosto 2011 che, nel regolare la disciplina dei rapporti economici tra ex coniugi, chiarisce l’orientamento giurisprudenziale in tema di relazione tra “mera convivenza” e “diritto all’assegno di mantenimento”. Con tale pronuncia la Corte ha accolto il ricorso presentato da un ex marito, che sia in primo grado che in fase di appello, aveva visto confermare il diritto della ex moglie a percepire una somma mensile, destinata a permettere la conservazione del regime di vita antecedente allo scioglimento del matrimonio, pur essendo questa ormai legata - di fatto - ad una nuova famiglia. La Corte, per arrivare a questa conclusione, ha ripercorso la rilevanza che ha via via assunto nel nostro ordinamento (e nel costume sociale) la convivenza stabile tra un uomo e una donna: in una prima fase il concubinato – una sorta di adulterio continuato – costituiva reato, nonché causa di separazione per colpa: la convivenza tra uomo e donna, come se fossero coniugi, rilevava infatti soltanto come forma di sanzione nel caso uno dei due conviventi fosse sposato. La fase del concubinato volgeva al termine con una nota sentenza della Corte Costituzionale (n. 167/1969) che cancellò tale ipotesi di reato. In una diversa fase, nella quale l’espressione “convivenza more uxorio” andava gradualmente sostituendo quella di “concubinato”, il nostro ordinamento per lo più si disinteressava del fenomeno, che rimaneva privo di specifica regolamentazione normativa, appunto perché l’art. 29 della Costituzione “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”: altri tipi di organizzazione familiare, diversi dal matrimonio, non erano ritenuti meritevoli di tutela. Soltanto con la riforma del diritto di famiglia del 1975 l’espressione “famiglia di fatto” iniziava a diffondersi. Con essa non si indicava soltanto il convivere come coniugi, ma si voleva evocare il concetto di “famiglia vera e propria”, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e di sviluppo della personalità di ogni componente, di educazione e di istruzione della prole.
La riforma, pur non contenendo alcun riferimento esplicito alla famiglia di fatto, accelerava l’evolversi della forma mentis: emergeva infatti un diverso modello familiare, aperto e comunitario, una sicura valutazione dell’elemento affettivo rispetto ai vincoli formali e coercitivi, l’eliminazione di gran parte delle discriminazioni tra filiazione naturale e legittima. Nel caso analizzato, l’ex moglie aveva instaurato un rapporto stabile di convivenza con un nuovo compagno ed aveva avuto due figli da quest’ultimo che, a sua volta, partecipava in maniera significativa al menage familiare avendo messo a disposizione della nuova famiglia un’abitazione di sua proprietà. La sentenza di appello, adeguandosi a precedente orientamento della Cassazione (Cass. n. 23968/2010) ha affermato che la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento: il diverso tenore di vita che aveva caratterizzato il matrimonio poi finito, giustificava la persistenza della corresponsione dell’assegno mensile.
Sovvertendo tale precedente orientamento la stessa Cassazione n. 17195 del 2011 ha ritenuto che, ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio: piani di investimento comuni, co-intestazioni di conti correnti e libretti, fidejussioni dell’uno in favore dell’altro, stipulazioni congiunte di contratti di finanziamento, contestazione di immobili etc..), la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto. In tale contesto il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante il matrimonio da uno dei due partner non può che venir meno di fronte all’esistenza di una famiglia, ancorché di fatto, rescindendosi così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di tale tenore.
Si tratta, in sostanza, di una sospensione del diritto all’assegno, che potrebbe riattualizzarsi in caso di rottura della famiglia di fatto, che com’è noto è effettuabile ad nutum ed in assenza di una specifica normativa, visto che il nostro ordinamento non prevede garanzia alcuna per l’ex familiare di fatto, salvo eventuali accordi economici stipulati tra i conviventi stessi.
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