Verso la fine del XIX secolo l’istriano Domenico Venturini si trovò ad abitare a Monfalcone per qualche anno e ne riferì in un libretto di memorie pubblicato tanti anni dopo.
Qui troviamo riportata un “strana” tradizione monfalconese che nel secolo successivo (il ‘900) risulta completamente scomparsa: i fuochi della vigilia di san Giovanni, che cade la sera del 23 giugno[1].
Legati come sono al progresso annuale della luce solare, con i solstizi (22-23/ 6 e 23-24/ 12) e gli equinozi (20-21/ 3 e 21-22/ 9), i diversi tipi di fuochi rituali riflettono una calendarizzazione dell’antico anno agrario, con radici da far risalire forse addirittura al lungo neolitico[2]. Nel corso dei millenni influssi diversi e più o meno profondi hanno apportato modifiche a questa rigida scansione annuale. Per cui il Natale cristiano insisteva sempre sulle antiche festività “pagane” ma i fuochi rituali si sono spostati da noi all’inizio di gennaio, coincidendo con la festa dell’Epifania[3]. L’equinozio di settembre ha perso d’importanza, forse assorbito dall’importante passaggio dell’inizio di novembre con la festività dei Morti e la fine dell’anno agricolo (tradizionalmente a S. Martino)[4].
Le feste legate all’equinozio di marzo erano molto sentite e attese in certe zone, ma quasi ignorate o cadute in oblio in altre. Nella montagna veneta, cimbra e trentina era diffusa la tradizione del brusa-màrso, (o bàter-marso / tràto-màrso / hòlant). In certe regioni (Veneto, parte del Friuli, Lombardia orientale, Marche) il periodo si confondeva con la Mezza-quaresima cristiana ed era caratterizzato dalle tradizioni del bruciare la vecchia [5]. Nei paesi di lingua gaelica (Irlanda e Scozia settentrionale) ci fu uno spostamento a fine aprile o inizio maggio, facendo coincidere una probabile festa del solstizio di marzo con una festa di primavera di origine forse diversa: quella che poi finì per diventare il Calendimaggio ed il I maggio di tante tradizioni popolari (dal sec. XIX anche laiche).
Nella cultura contadina del Friuli avevano molta importanza le due feste solstiziali di dicembre e di giugno, naturalmente all’interno di una “normale” interpretatio cristiana, per cui vennero fatte corrispondere alle famose 12 notti “magiche” fra Natale ed Epifania e alla festa di San Giovanni.
O meglio alla vigilia di quest’ultima ricorrenza religiosa, caratterizzata da svariati motivi delle credenze e superstizioni popolari. Ne accenna pure il Venturini quando scrive che le “fanciulle monfalconesi … versavano il piombo liquefatto in un bicchiere d’acqua, e dall’aspetto che la massa informe avrebbe assunto, il dì seguente, predicevano lontane o vicine le sospirate nozze”. Altrove in Friuli si dava molta importanza alla rugiada di quella notte che, per far solo un esempio, era ritenuta portentosa per la pelle delle donne (Ciceri 1992: 841-48).
A Monfalcone la sera del 23 giugno si accendevano, con il consenso delle autorità, otto grandi torce di catrame sulla Rocca e una ruota di fuochi pirotecnici sulla piazza principale, la Piaza Granda. Mentre i ragazzi organizzavano per conto proprio “focherelli … un po’ dappertutto” nella vecchia Desena monfalconese. Si diceva all’inizio della stranezza di questa tradizione, perché in realtà le ricerche svolte nel corso del ‘900 hanno evidenziato una netta divisione territoriale (a parte, come vedremo le località di Venzone e Gemona) fra i fuochi invernali noti e praticati in tutta la vasta pianura friulana e veneta e quelli del solstizio estivo, diffusi “solo” nella parte orientale del Friuli e della regione carsica e triestina. Cioè “solo” nelle zone (es. il Tarcentino) che sono o che erano fino a qualche generazione addietro di parlata slovena: in queste zone erano conosciuti col nome di kres (kries, krias ecc.). La separazione risultava ora essere anche fisica poiché ai fuochi rituali friulani e veneti di pianura corrispondevano quelli sloveni delle colline e montagne orientali.
Anche la Bisiacaria monfalconese conosceva da secoli i fuochi invernali, chiamati con antica voce slava sèima o sèimo[6]. Il termine era anticamente l’incipit di canzoncine augurali slovene che iniziavano con l’imperativale “seminiamo” (sejmo), intendendo un anno agrario fortunato.
Nelle Valli del Natisone e nel Collio si son potuti registrare negli anni ’90 gli ultimi esempi di queste strofe per i fuochi invernali (Sèjme, sèjme nove lieto …; Sèjmo, sèjmo, djel’mo kries …; Puntin 2000). Questo si spiega col fatto che diversi paesi sloveni mantengono ambedue le tradizioni solstiziali. E questa potrebbe esser stata anche la tradizione medievale del Monfalconese, una zona che più di altre ha avuto una storia complessa, con vari rivolgimenti etno-linguistici fra i secoli XV e XVI. Anzi a dar credito ad un documento pubblicato qualche anno fa, sembra che a Monfalcone si avessero tre eventi legati a fuochi rituali: le sèime d’inizio anno (conservate fino ad oggi nei paesi bisiachi), la nassenza della Seima Granda il mercoledì delle Ceneri (attestazione del 1443; Puntin 2007) e l’ultimo alla vigilia di San Giovanni, quello a cui partecipò nel 1880 il Venturini.
In questo Monfalcone andava confrontata con la vecchia Trieste ladina, che allestiva i grandi fuochi rituali due volte l’anno, per san Pietro (29 giugno) e per san Giusto (3 novembre; Cavalli 1893). In questo caso l’importante festività dedicata al protettore della città avrà contribuito a spostare i fuochi invernali dalla data legata al solstizio a quella di novembre. Nella non lontana Muggia d’Istria, anch’essa linguisticamente ladina fino alla prima metà del sec. XIX, erano molto sentiti e praticati solo i fuochi del solstizio d’estate: i ragazzetti raccoglievano le fascine e facevano i cosiddetti zardin de san Zuan e Pòlo tre grandi mucchi di fascine, in piazza, al castello e fuori delle mura[7]. Anche a Marano Lagunare erano ben noti i Foghi di S. Gio.Batta o Fuochi di San Zuanne [8] (Ciceri).
Nell’alto Friuli solo a Gemona, a Venzone e nel Canal del Ferro (Chiusaforte e Pontebba)[9] sono testimoniati i fuochi per la vigilia di san Giovanni, uniti e confusi con il lancio di una sorta di “quadrelle” infuocate): una spiegazione di questa particolarità potrebbe trovarsi nel fatto che nei lunghi secoli del medioevo le due cittadine e la lunga valle di passaggio sono state molto legate al passaggio di merci da e per la Carinzia e l’Austria in generale. Va detto ancora che tutto il Canal del Ferro ebbe nel medioevo una popolazione mista (latina e slava), in alcune zone interamente slava (Resiutta, Dogna, Raccolana); centinaia di antichi toponimi slavi stanno ancora oggi a testimoniarlo.
In Carinzia i fuochi del solstizio estivo erano ben noti, anche considerato che in epoca medioevale le valli carinziane erano abitate in buona parte da sloveni. Molto nota è pure la canzoncina slovena con incipit: “Sijai sijai sončece …”[10]. Si tratta, come sappiamo, di resti di antichi culti solari sparsi come fossili all’interno del complesso di credenze storiche integrate da molti secoli nel cristianesimo dominante.
Va detto per completezza che i fuochi solstiziali estivi, derivando da tradizioni ancestrali dell’umanità sono diffusi in tante regioni d’Italia e d’Europa, dal nord germanico, celtico e slavo al mondo mediterraneo.
A questo proposito ecco cosa ne pensava Sant’Agostino (Sermones 293 / b, 5), alludendo alla tradizione dei fuochi della popolazione romano-berbera dell’Africa settentrionale: “Contro il sopravvivere di usanze superstiziose” - Dunque, celebrando con adunanze festive il giorno della nascita del beato Giovanni, precursore del Signore… evitiamo di profanare la sua nascita. Si faccia finita con quel che sopravvive di sacrilego … è vero che quelle cose che abitualmente si fanno non avvengono più in onore dei demoni, tuttavia però ancora secondo il costume dei demoni. Ieri, dopo l'ora del vespro, l'intera città ardeva di fuochi maleodoranti; il fumo aveva oscurato tutta l'atmosfera. Se vi sta un po' a cuore la religione, consideratelo per lo meno una vergogna per tutti -.
Anche da cronache sull’assedio di Malta del 1565 veniamo a sapere che nell’isola mediterranea erano tradizionali i festeggiamenti con fuochi pirotecnici per il giorno di S. Giovanni.
Per finire, se nel passato i fuochi del solstizio d’estate o della vigilia di san Giovanni erano tradizionali pure a Monfalcone, Trieste e Muggia, oggi sono quasi del tutto limitati (se si esclude il Gemonese) alla fascia orientale montana e collinare della regione, da Tarvisio e dal Canal del Ferro (con Resia) ai paesi del Carso triestino. Una fascia caratterizzata da una forte presenza slovena.
[2] In un breve articolo non si può nemmeno sintetizzare la vasta letteratura folclorica e antropologica dedicata a questo tema: Per cui esistono centinaia di libri e pubblicazioni locali varie. In bibliografia solo le più note e quelle regionali.
[3] In alcune località invece sembra che ci sia stata una anticipazione, per far coincidere i fuochi con la festività cristiana più celebrata localmente: a Foggia per la festa dell’Immacolata (8 dicembre).
[4] In alcune aree limitate (es. Val Camonica) i fuochi rituali si accendevano fra il 15 e 16 agosto: in questi casi è difficile dire se ci sia stato un antico spostamento dei fuochi di giugno o un anticipazione di riti per un solstizio di settembre di cui si è persa memoria.
[5] Si registrano anche altri nomi come Femenute a Rivalpo in Carnia, Sega-vecchia in molte località italiane. Nel sentire comune si “brruciava” o si “segava” la vecchia annata agraria, all’approssimarsi della primavera..
[6] Nel Friuli le denominazioni principali dei fuochi epifanici sono pignarûl, pan-e-vìn, fogarón, fugarèla e calìn-calón. In alcune zone slovenofone ma vicine all’area friulana la voce pan-e-vìn è divenuta polovìn. In Carnia è abbastanza diffusa la tradizione delle rotelle infuocate (las cìdulas) legate al solstizio invernale ma anche a varie ricorrenze locali (Bacchetti 2012). Nel Monfalconese è generale il termine sèima (sèimo solo a Turriaco) ma vanno escluse le località di Sagrado e Isola Morosini che usavano denominazioni romanze, rispettivamente fogarón e cabòssa. Quest’ultima indicava le canne di granoturco addossate in forma conica, qualcuna delle quali era destinata al fuoco della sera del 5 gennaio.
[7] “ .. i mamulùs de set, ot, nouf ain, e i va de puorta in puorta, e a dis: diene una fasina … i fegua i zardin in plasa … po i li feva foura del paiés … là ke zé el ciastiel … i feva tréi grun, e i ge deva fouk ..” (Cavalli J., 1893: 87).
[8] A. Ciceri in (Aa.Vv.) Maran: 146.
[9] A Chiusaforte per S. Pietro e Paolo (29 giugno), sul greto del fiume Fella, si lanciavano delle placche di faggio infuocate, chiamate šcalètis. A Studena di Pontebba i fuochi di san Giovanni eran detti fogarèli (Ciceri 848). In Carinzia la tradizione tedesca corrispondente è quella delle Sonnwendscheiben (letteralmente ‘rotelle del solstizio’). Nell’Alto Isonzo sloveno šiba /šibra (dal tedesco antico) e nel Caporettano fageta (leggi ‘faghèta’), da un friulano *foghèt.
[10] Per esempio alla metà del XIX secolo risalgono queste strofe registrate nella Gailtal (Ziliska dolina) per le feste solstiziali: Jes se obrnam pruti svetami sonci – pruti božjami zhodi – pruti ježišami grobi (H. Ložar Podlogar).
Bibliografia –
Aa.Vv., Maran, numero unico, SFF, 1990, Udine.
Aa.Vv., Slovenci v Laškem – Cenni storici sulla comunità slovena nel Monfalconese, 2005.
Bacchetti Barbara, Carnia Terra di tradizioni, Verona, 2012.
Cavalli Jacopo, Reliquie ladine raccolte a Muggia d'Istria, Bologna, 1893 (rist. anastatica 1969).
Ciceri Andreina, Tradizioni popolari in Friuli, voll. I e II, Reana del Rojale, 1992.
Felli Veronica, Fuochi rituali in Friuli (presentazione di G.P Gri), Spilimbergo, 2003.
Ložar Podlogar Helena, Kres - Die Sonnwendbräuche der Slowenen, da Internet.
Majar Matija, Slovenski običaji, Slovenska Bčela 2 /1, Celovec (Klagenfurt), 1851.
Puntin Maurizio, Le seime bisiache ovvero un ricordo di tradizioni contadine slave medievali della terra di Monfalcone, in “Il Territorio”, 13-14, Monfalcone, 2000, 57-59.
Puntin Maurizio, Sulla originaria ladinità del Territorio di Monfalcone, in Atti del secondo convegno di toponomastica friulana, a cura di F. Finco, I, Pasian di Prato, 2007, 287-336.
Puntin Maurizio, Dei nomi dei luoghi. Toponomastica storica del territorio di Monfalcone e del comune di Sagrado, 2010, Gorizia.
Rizzolatti Piera, Fuochi di paglia. Sul pignarûl e le denominazioni friulane e venete del falò epifanico, in Sot la Nape LXXII, 2, 1996: 175-202.
Venturini Domenico, Monfalcone - Memorie d’infanzia 1880 – 1884, con prefazione e note di S. Domini, Gradisca, 1980.
Commenta per primo