La forza delle donne

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Anna Limpido

4 Maggio 2022
Reading Time: 6 minutes

Anita Kravos

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Anita Kravos (ph. Gianmarco Chieregato)

La Campagna di sensibilizzazione “Pillole di Parità” nasce dalla condivisione tra tutti i Consiglieri di parità dell’Asse Triveneto della necessità di parlare di parità di genere in modo innovativo, non più solo per “denunciare” le evidenti disparità ma per incoraggiare un linguaggio visivo inclusivo che porti alla riflessione di quanto dalla parità abbiamo tutti da guadagnarci o, all’opposto, tutti da perderci.

Tra le testimonial di questa campagna, spicca il nome dell’attrice goriziana Anita Kravos.

«#PillolediParita con il claim “la parità di genere può cambiare la storia” – racconta in questa intervista – è una campagna di sensibilizzazione per la parità di genere promossa dalla Consigliera di Parità della Regione Friuli Venezia Giulia, Anna Limpido, condivisa con tutti i consiglieri di Parità del Triveneto e patrocinata dalle Regioni, dal Ministero del Lavoro e dal Ministero per le Pari Opportunità. Quando Anna Limpido me ne ha parlato, ho aderito con grande entusiasmo all’iniziativa: c’è bisogno, urgente, di più donne in posizioni apicali. Se ci fossero più donne in posizioni strategiche, nei ruoli di vertice, ci sarebbero meno guerre. La disparità di genere appartiene a un sistema sociale, quello patriarcale, non più contemporaneo. Nella disparità di genere si nascondono fenomeni di prevaricazione e violenza e sarebbe tempo di cambiarla, questa storia».

Anita, in tema di parità di genere a suo avviso qual è lo stato dell’arte in Italia?

«C’è ancora molto lavoro da fare. Si contano sulle dita di una mano le direttrici di teatro, produttrici, responsabili in posizioni decisionali. Porto un esempio. Nella storia della Repubblica Italiana, Pamela Villoresi è la sesta donna direttrice di un teatro stabile tra centinaia di direttori uomini. In più di 70 anni di Repubblica Italiana, quindi, abbiamo sostanzialmente disatteso l’affermazione del principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. Oltre a essere la sesta donna, Pamela Villoresi è anche la prima attrice a essere stata nominata direttrice di un teatro stabile: le precedenti donne erano organizzatrici e una regista. Ed è anche il primo attore (uomo o donna che sia) a essere nel direttivo dei Teatri Nazionali e TRIC (teatri di rilevante interesse culturale). È senz’altro un grande esempio per tutti noi, oltre a essere una persona squisita: l’ho conosciuta sul set de “La Grande Bellezza” e di “Romanzo Famigliare” di Francesca Archibugi».

Lei è una attrice di successo: nella sua carriera ha dovuto faticare più dei colleghi uomini per arrivare dov’è giunta?

«Sì. Sicuramente ci sono più ruoli maschili scritti sia per la tv che per il cinema, sia secondari che principali. E in generale, nell’industria cinematografica la maggior parte delle donne viene pagata di meno e non ricopre ruoli apicali con poteri decisionali: spesso le donne sono impiegate nel reparto costumi, trucco, acconciature. Mentre rimangono maschili ruoli come regista, direttore della fotografia, musicista, produttore: i ruoli dove si guadagna di più e vengono prese le decisioni. Nel teatro l’occupazione femminile si attesta al 45%: percentuale che scende vertiginosamente nelle posizioni apicali. Nella regia non si supera il 20%. Per quanto riguarda, invece, la direzione la situazione è quella che ho descritto sopra».

Quando in famiglia comunicò l’intenzione di dedicarsi alla recitazione che reazioni ci furono?

«In realtà non ci fu una comunicazione ufficiale: ho studiato contemporaneamente sia recitazione sia lingue, e le due strade si sono intrecciate sempre più. Ho cercato di portare avanti più scenari possibili. Ancora oggi sono convinta di aver fatto bene, perché tutto ciò che si fa per essere un buon attore non basta mai. Un grande attore è innanzi tutto un grande essere umano».

A suo avviso nel mondo dello spettacolo la parità di genere esiste o lo stereotipo delle donne innanzitutto belle e avvenenti (e solo in secondo luogo brave e competenti) continua a essere presente?

«Nello specifico del mestiere dell’attrice c’è sempre una considerazione della donna come oggetto, con la quale bisogna avere a che fare. Un’attrice bella deve dimostrare di essere brava, un’attrice brava deve dimostrare di essere bella. Per un attore la questione di essere oggettivato non c’è. Dopo i 35 anni i ruoli femminili scarseggiano. I media propongono spesso un’immagine stereotipata della donna plasmata più su quello che la società si aspetta tradizionalmente da loro. I prodotti audiovisivi che contengono ruoli femminili a tutto tondo, lontano dagli stereotipi, sono troppo pochi. Prendiamo l’esempio di Marilyn Monroe: il prototipo di donna bella e avvenente, apprezzata per le sue qualità esteriori. In realtà lei era ben altro: basta leggere i suoi scritti per scoprire una donna sensibile e intelligente, ben al di là dello stereotipo in cui è stata incasellata».

Sempre in tema di parità di genere nel mondo dello spettacolo, a suo avviso com’è stata l’evoluzione dagli anni in cui lei ha iniziato fino a oggi?

«Proprio negli ultimi anni qualcosa a proposito di parità di genere inizia a muoversi, soprattutto grazie agli incentivi per le pari opportunità nella Legge Cinema e Audiovisivo. Rimane eclatante il dato di Women in Film TV and Media Italia, secondo cui tra il 2008 e il 2018 in Italia solo il 15% di film sono stati girati con uno sguardo femminile. Nell’intrattenimento lavorano moltissime donne, ma solo uno sparuto numero riesce a raggiungere gli stessi livelli salariali e di carriera dei colleghi uomini. Fra gli obiettivi dell’Agenda 2030, al quinto posto c’è il raggiungimento della parità di genere e questo sta dando un forte impulso al percorso. Anche con #metoo è stato fatto un passo in avanti. Un piccolo passo per la donna, un grande passo per l’umanità».

Tra i film in cui ha recitato quale a suo avviso è più vicino al messaggio della parità di genere?

«Senz’altro il film di Marco Tullio Giordana “Nome di Donna” del 2018, con protagonista Cristiana Capotondi, dove ho interpretato una sua collega di lavoro. Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, denuncia il tema della molestia sessuale come cultura sul posto di lavoro. La parità di genere è un obiettivo sempre più inseguito anche dagli uomini e dagli artisti in generale, ma il cambiamento definitivo è ancora di là da venire».

Quella per la parità di genere è in primis una sfida culturale: a suo avviso quali sono i passi necessari da compiere per poterla vincere?

«L’educazione innanzi tutto. L’educazione alla pari dignità e al rispetto dell’altro. Se non riusciamo a riconoscere una nostra compagna di scuola, una nostra collega come nostra pari e uguale, come faremo ad affrontare tutte le altre forme di discriminazione?»

Anita Kravos nella sua quotidianità quali passi compie per valorizzare la parità di genere?

«Insegno al Laboratorio Arte Cinematografica a Roma, dove, come all’Accademia a Mosca (GITIS), in cui ho studiato, allievi attori studiano assieme ad allievi registi. Giovani studenti, uomini e donne, si preparano per diventare attori, registi, ma anche a ricoprire ruoli che storicamente sono maschili, come appunto direttori della fotografia, sceneggiatori, montatori, montatori del suono, fonici. Il mio compito come docente è saper riconoscere il talento. Quando una ragazza di venti anni si orienta al corso di fotografia o di regia, la incoraggio a mettersi in gioco da subito e a iniziare a faticare di più dei colleghi uomini: prendere in mano la RED (la macchina da presa), fare subito esperienza di set. Purtroppo a tutt’oggi in questi reparti è difficile acquisire credibilità in quanto donna».

Nella campagna “Pillole di Parità” c’è un gioco del paradosso in cui personaggi iconografici maschili appaiono col viso da donna. Ribaltiamo la prospettiva: qual è la figura di uomo che Anita Kravos maggiormente apprezza o da cui trae ispirazione?

«È molto semplice, anche perché da sempre rappresento lui, in giro per il mondo, ma senza baffi: mio padre. Guardo lui e vedo me col baffo: stesso naso, stessi occhi, stessa postura. Traggo ispirazione da lui quotidianamente. Ai nostri genitori dobbiamo tutto. E quest’anno ho sentito affermare la stessa cosa anche da un regista che, scherzando, mi ha detto che sì, dobbiamo tutto ai nostri genitori e che io Anita, per tutto il resto lo devo a lui. Il regista è Paolo Sorrentino e il film dedicato ai genitori è “È stata la mano di Dio”».

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