Friulano di Sacile, Maurizio De Biasio è un cittadino del mondo. Da trent’anni, in sella alla propria motocicletta, macina chilometri alla scoperta del pianeta.
Europa, Stati Uniti, Australia, Africa, Asia… Un itinerario senza soluzione di continuità, che lo ha portato a vivere emozioni uniche in luoghi remoti, scoprendo non solo meraviglie indimenticabili, ma anche persone e tradizioni capaci di arricchire la sua esistenza. Per condividere le sue esperienze, De Biasio ha anche aperto un blog online (www.mauriziodebiasio.it), divenuto luogo virtuale di confronto per motociclisti, viaggiatori e fotografi. Perché, come il diretto interessato ci racconta in questa intervista, per entrare in una nuova dimensione, bisogna abbandonare la propria zona di confort.
Maurizio De Biasio, cosa significa per lei viaggiare?
«Viaggiare è una forma mentale, è una predisposizione a conoscere, a confrontarsi. Si viaggia se si è curiosi di apprendere, se si è assetati di avventura, se si ha voglia di mettersi in viaggio, a volte di rischiare. Il viaggio, per un viaggiatore, è come entrare in una nuova dimensione, che ti stacca dal quotidiano, dal mondo della “confort zone”».
Quando ha preso forma questa passione?
«Da giovane motociclista, all’epoca del motorino per intenderci, guardavo le riviste blasonate di moto, di viaggi mitici in Europa e di viaggi impossibili oltre i confini del nostro continente. Molti di questi li ho realizzati».
I suoi viaggi si sono sempre svolti su due ruote in moto: qual è il ruolo del mezzo di trasporto in queste imprese?
«Il viaggio è sempre cominciato molto prima, con la preparazione della mia moto. Ogni viaggio, infatti, è stato fatto con lei, in qualunque parte del mondo. Tranne in rari casi, dove ho noleggiato un’auto sul posto, mai un’altra moto».
Farebbe mai i medesimi viaggi con un mezzo diverso dalla motocicletta?
«A oggi, non lo prenderei in considerazione. Il contatto che la moto concede con l’ambiente esterno non ha nulla a che vedere con un’automobile, per esempio. Può essere secondo solo alla bicicletta o ad andare a piedi, condizioni nelle quali ci si immerge ancora di più nella realtà, nell’atmosfera, nel clima, nel lento andare di un viaggio, da viaggiatore».
Lei ha visitato praticamente tutta l’Europa, gli Stati Uniti, l’Australia, parte dell’Africa e dell’Asia, il Medio Oriente: c’è un viaggio che le è rimasto dentro più degli altri?
«Ogni viaggio ha avuto un suo fascino, una sua unicità per i luoghi visitati e per le genti incontrate. Però, vi sono delle emozioni che hanno lasciato un segno più profondo nel mio animo. Mi riferisco all’Australia e all’Iran. L’Australia ha rappresentato la sfida a un continente unico, sconosciuto, per certi versi inesplorato.Il solo fatto di affrontarlo, preparando la mia moto per questa avventura, ha costituito una sfida. Poi, i deserti, le distanze, i colori, la luce, la solitudine, l’adrenalina, ne hanno fatto un mio mito».
E l’Iran?
«L’Iran, per me, ha rappresentato una svolta, anche personale. Un paese sconosciuto per i più, difficile, pericoloso. Ma la sfida era lanciata e mi sono spinto in quelle terre malgrado fosse un viaggio sconsigliato da molti conoscenti e amici. Ero pervaso da qualche dubbio se non paura, ma mi sono ricreduto pochi metri oltre il confine. Ho incontrato un popolo di una accoglienza smisurata, unica, talvolta quasi disarmante. Me ne sono innamorato. Ci sono ritornato per altre due volte».
Durante i suoi tragitti ha attraversato molte zone “calde”: Azerbaijan, Uzbekistan, Ucraina, Pakistan, Namibia, Botswana… Ha mai avuto paura?
«La paura è una componente obbligatoria, soprattutto se si viaggia da soli. La paura ti mette in uno stato di attenzione, di controllo del territorio, della situazione che ti circonda, di analisi istantanea del contesto in cui ci si trova o che si attraversa. Non è una componente che ti blocca, ma che ti mette in sicurezza. La paura, nel vero senso della parola, posso dire di averla provata in Pakistan».
Perché?
«Ero a Quetta, capoluogo del Belucistan, una delle zone più pericolose del Pakistan. La scorta armata che mi accompagnava era composta da cinque moto, ognuna con a bordo due militari, armati di pistole o kalashnikov, dito sul grilletto. Correvano all’impazzata per le vie della città, suonando i clacson e facendosi spazio tra la gente e il traffico in malo modo, al fine di raggiungere l’albergo (luogo sicuro militarmente), il prima possibile. Venti minuti di tensione e cuore in gola».
Come sceglie le mete dei suoi viaggi?
«I viaggi sono spesso dei sogni. Nascono da immagini, da racconti, da fotografie, da canzoni, come nel caso di Samarcanda, la famosa canzone di Roberto Vecchioni».
Viaggiare “on the road” significa immergersi nella quotidianità della gente. In Paesi con culture molto diverse dalla nostra, le persone che accoglienza hanno riservato?
«La vera differenza tra un viaggio e un altro, spesso, è data proprio dalle persone. L’accoglienza, la mano tesa in un saluto, il sorriso dei bambini o l’atteggiamento ostile, anziché l’indifferenza, possono fare di un bellissimo viaggio un viaggio insignificante o talvolta da dimenticare. Sono rari i casi di persone che si sono dimostrate maldisposte. Io faccio una semplice considerazione: nel mondo ci sono più persone buone che cattive, e se qualcosa o qualcuno non mi convince, rapido e disinvolto tolgo il disturbo».
Lo scrittore americano John Steinbeck ha scritto: “Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone”. Qual è la cosa più importante che Maurizio De Biasio ha imparato nei suoi viaggi?
«Viaggiare è vivere; anche nel nostro quotidiano impariamo qualche cosa ogni giorno. Viaggiando si impara qualche cosa di più, chilometro dopo chilometro».
La lista dei Paesi che lei ha visitato è sterminata. Quali sono le prossime mete che desidera raggiungere?
«Ci sono molti luoghi da visitare nel mondo. Più si conosce più ci si rende conto che ci sono spazi da esplorare. Raramente amo ritornare nello stesso posto, anche se, a distanza di anni, potrebbe essere interessante riesplorare proprio gli stessi paesi, ora che sono arricchito di una più grande esperienza e soprattutto di una maturità diversa».
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