Segni di liberà

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Livio Nonis

3 Agosto 2021
Reading Time: 4 minutes

Mattia Campo Dall’Orto

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Mattia Campo Dall’Orto è un artista indipendente originario di Trieste. Realizza opere principalmente in spazi pubblici, in Italia e all’estero. Si è avvicinato al movimento del graffiti/writing nel 1997 e da quel momento l’interesse per il disegno è diventata la sua passione per pittura e scrittura, anche nelle sue forme più contemporanee e ribelli, come l’arte urbana.

I graffiti lo hanno trasformato in un insaziabile consumatore di arti visive, alimentando la sua curiosità e offrendo un pretesto per esprimere quello che sente. Negli anni ha sperimentato molte tecniche e linguaggi: ora non dipinge solo muri ma crea opere che spaziano dai dipinti su tela alla calligrafia, dai libri d’artista alle stampe d’arte. La scoperta del metodo di ricerca antropologico all’università e lo sforzo di adattarlo al suo lavoro hanno affiancato la sensibilità artistica: ora ha strumenti per sviluppare progetti partecipativi e attivare uno scambio con le comunità che lo accolgono.

Mattia, come definisce la pittura e come può spiegarla alle persone che osservano i suoi dipinti?

«La pittura è un linguaggio straordinario che fortunatamente è tanto difficile da definire quanto è libero. Quando conduco i workshop di graffiti, faccio notare ai partecipanti (spesso adolescenti) come dipingere o scrivere su grandi superfici sia una sorta di danza: il movimento, il gesto, l’azione sono fondamentali. La pennellata, il segno, la goccia, lo schizzo e il colore hanno la forza di registrare questo ritmo».

Quali sono le prime fasi di un progetto artistico?

«Non c’è una maniera fissa, unica o giusta per realizzare un’opera. Se si crea in studio, in un ambiente tranquillo e controllato, senza rendere conto a nessuno, l’approccio è una questione estremamente individuale ed emotiva. Negli spazi pubblici la musica cambia. Io mi sforzo di essere flessibile e di adattarmi perché ogni muro è diverso da un altro. Preferisco quindi conoscere il contesto, conoscere le persone che abitano o frequentano uno spazio, la sua storia. Solo quando ho raccolto abbastanza informazioni provo a riorganizzarle in appunti, schemi e bozzetti. In questa fase preparatoria, la fotografia mi aiuta ad “annotare” visivamente alcuni elementi; successivamente mi è utile per sessioni con modelli o modelle, se intendo dipingere qualche figura. Lo studio della composizione poi è un lavoro di equilibri, visivi e concettuali».

Quali tecniche usa per realizzare una grande opera su muro?

«Il passaggio da un progetto su carta o su file all’opera di grandi dimensioni su muro è meno complesso di quanto si possa pensare. Ci sono diversi “trucchi del mestiere” che aiutano noi urban artists ma è divertente vedere come le persone si stupiscano sempre della naturalezza con cui dipingiamo soggetti enormi, rispettando le dovute proporzioni. La sperimentazione di tecniche e strumenti oggi mi è utile per ottenere effetti in modo veloce, con poco sforzo e senza sprechi. Solitamente utilizzo una tecnica mista: pitture all’acqua stese a rullo e pennello per il 90% dell’opera, mentre solo pochi dettagli o sfumature vengono realizzate a spray. Ultimamente impiego anche pigmenti naturali e pitture ecologiche perché credo che anche in questo settore si possa ridurre l’impatto ambientale».

Chi sono i committenti?

«Le istituzioni pubbliche e private, negli ultimi anni, sono attratte dal messaggio che un’opera di arte urbana può trasmettere. Ecco che le opere diventano un’opportunità per me di conoscere meglio aspetti critici della nostra società e rielaborarli graficamente. Vedo il mio ruolo non tanto come quello di messaggero: l’opera è più una specie di specchio nel quale osservarsi e vedersi diversi. Detto questo, ammetto che l’arte (tanto più quella urbana) non debba essere sempre impegnata, anzi».

Tra le opere realizzate a quali è più legato?

«I progetti contro la violenza di genere o contro la discriminazione dei migranti, ad esempio, continuano a entusiasmarmi perché vi sono iniquità e ingiustizie che vale la pena contrastare con ogni mezzo e con il sostegno di persone straordinarie. Parlandone mi rendo conto che non sono proprio le opere a piacermi bensì la memoria delle persone incontrate per realizzarle: è il ricordo di chi mi ha accolto e ospitato a rendere dolce e gradevole quella situazione e a darmi la forza per continuare».

Dal punto di vista stilistico, invece, come si evolvono le sue opere?

«Talvolta si pensa che l’ambizione di un pittore sia quella di raggiungere uno stile pittorico ben riconoscibile ma spesso l’artista diventa prigioniero delle sue stesse abitudini. A me piace sperimentare, cambiare e non adagiarmi su routine creative che, alla lunga, smorzano l’inventiva e mi annoiano. Se proprio devo riconoscermi in uno stile, che sia uno stile fluido, liquido, sfuggente. In altre parole, che sia uno stile libero».

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